Siti UNESCO nel degrado, aree protette abbandonate e non tutelate, borghi e centri storici disabitati, musei aperti a scartamento ridotto, monumenti chiusi e non accessibili, biblioteche e archivi in crisi economica e di personale, beni architettonici cadenti e non manutenuti. La lettura della stampa quotidiana, le trasmissioni televisive di inchiesta, i blog ed i giornali online, riportano sempre più frequentemente notizie riguardanti quella che potremmo definire l’emergenza del patrimonio culturale abbandonato e dimenticato.

In questa situazione sconfortante emergono, però, dei segnali di speranza rappresentati da iniziative promosse da cittadini appassionati e competenti che partendo dall’amore per il proprio territorio hanno avviato progetti di presa in carico di parti importanti di patrimonio culturale e ambientale che sono stati rifunzionalizzati, manutenuti e resi fruibili alla cittadinanza ed ai visitatori. Si tratta di iniziative che applicano i concetti dell’innovazione sociale alla gestione del patrimonio culturale.

Quali sono le caratteristiche di queste imprese culturali che si occupano del patrimonio abbandonato, erroneamente definito minore?

Le storie di impresa culturale che iniziano a farsi strada nel Mezzogiorno mostrano un attivismo ed un protagonismo che si oppone all’immagine stereotipata di un Sud arreso e assistito. Sono racconti di persone che hanno scelto di attivarsi per realizzare progetti in grado di rispondere ad un interesse personale ed al tempo stesso sociale, in un contesto che presenta fortissime criticità sociali ed economiche.

Il primo elemento che balza agli occhi è che le iniziative che si sono prese cura del patrimonio abbandonato non si sono sviluppate in contesti dove erano presenti logiche di tipo distrettuale. Si tratta di iniziative nate dal basso, sulla base di processi spontanei ed in un contesto di riferimento tendenzialmente ostile. Questo aspetto è molto rilevante ed evidenzia che è possibile innovare anche in assenza di un contesto istituzionale favorevole.

Un aspetto che accomuna molte delle storie analizzate è legato, infatti, all’incapacità delle istituzioni pubbliche e degli attori territoriali di supportare la sfida intrapresa dagli innovatori sociali in ambito culturale. Il raggiungimento di importanti risultati è stato reso possibile nonostante l’assenza della PA, piuttosto che grazie al suo supporto. Da un punto di vista generale, quindi, la PA, nelle sue diverse articolazioni, non ha favorito la nascita di queste iniziative, e addirittura in qualche occasione ne ha ostacolato lo sviluppo.

Al tempo stesso, però, la presenza di nuclei di innovazione, anche all’interno di alcuni stakeholder pubblici, hanno anche svolto un ruolo positivo che è importante sottolineare. Dalle storie analizzate emerge che in tante PA ci sono persone pronte a “dare una mano” a chi prova a farsi carico dei problemi ed a trovare soluzioni innovative. In particolare nell’applicazione di modelli innovativi di affidamento del patrimonio culturale che salvaguardando la tutela sono riusciti a contemperare la normativa e le esigenze di coinvolgimento e volontà di partecipazione dei cittadini.

Un altro fattore che caratterizza il contesto di riferimento di chi promuove azioni di innovazione sociale nell’ambito del patrimonio culturale è lo scetticismo diffuso. Le esperienze di chi ha scelto di avviare percorsi di innovazione in questo ambito sono costellate da frasi del tipo: “non ce la farete mai!” o “ma chi te lo fa fare?”.

I progetti che riescono a muovere i primi passi ed a raccogliere i primi risultati positivi, dopo aver fronteggiato con successo lo scetticismo si ritrovano, spesso, a fare i conti con l’invidia. Le frasi classiche che sono costretti ad ascoltare gli innovatori sociali in questa fase diventano: “Chissà chi è il suo santo in paradiso?” o “Perché non vi occupate di problemi più importanti, invece di …..”.

Nel profilo degli innovatori sociali che hanno sviluppato queste iniziative ritroviamo, quindi, una fortissima determinazione ed una grande capacità di resistenza e di superare i mille ostacoli che generalmente si frappongono alla realizzazione dell’obiettivo.

Le imprese culturali di cui parliamo sono lontane anni luce dalla cosiddette start-up innovative. Siamo in presenza di piccole realtà micro-imprenditoriali che riescono a sostenersi economicamente ed a garantire l’occupazione ad alcuni tra i soci promotori. Sono realtà che non mirano ad accedere nel circuito dei business angels e dei venture capitalist, poiché non hanno la potenzialità reddituale richiesta da questi soggetti, ma che intendono rispondere ad una problematica sociale, la gestione del patrimonio culturale, con logica imprenditoriale.

L’elemento che caratterizza queste imprese, rispetto alle start-up tecnologiche è il loro radicamento territoriale in quanto la loro principale missione è proprio quella di prendersi cura di una parte del patrimonio culturale e renderlo fruibile per la comunità. L’impatto sull’economia locale di ogni singola realtà è limitata, ma le ricadute sono necessariamente a vantaggio del territorio, mentre molto spesso il percorso di sviluppo di una start-up innovativa può portarla molto lontano dalla comunità in cui tali idee sono state incubate.

Nell’impostazione dei progetti di innovazione sociale applicati al patrimonio culturale i cittadini sono considerati come potenziali partner da includere nell’iniziativa. Il primo ingrediente di queste iniziative è infatti la capacità dei promotori di costruire attorno all’iniziativa un consenso popolare.  Da questo punto di vista il cittadino rimane tale ed il processo di coinvolgimento non si basa su logiche commerciali ma di partecipazione e di co-progettazione. Ciò non significa che questi progetti rigettano la logica commerciale, ma non come unica prospettiva di relazione con i cittadini.

La capacità di coinvolgimento e di attivazione di processi di co-progettazione è alimentata, in molti dei progetti analizzati, da una buona capacità di comunicazione online. Il web per gli innovatori sociali del patrimonio è un’arma per rafforzare le reti di collaborazione ed ampliare la reputazione e la notorietà delle esperienze maturate al proprio interno.

Un’altra importante capacità degli imprenditori culturali è legata alla priorità posta sulla capacità di collaborare piuttosto che sullo spirito competitivo. Questo aspetto rappresenta una caratteristica particolarmente interessante dei progetti di innovazione sociale applicati al patrimonio: mettere in secondo piano il concetto di competizione ponendo invece al centro l’importanza di collaborare è un orientamento particolarmente innovativo. Sotto certi aspetti questa tendenza si sposa con il superamento della logica assistenziale. In quel contesto, infatti, i soggetti operanti a vario titolo in ambito culturale erano portati a competere ferocemente per accreditarsi sul mercato politico e mancava qualunque incentivo alla cooperazione. In assenza delle risorse pubbliche da dividere tra tanti pretendenti, i soggetti impegnati nella salvaguardia e fruizione del patrimonio culturale hanno progressivamente colto il valore e l’importanza della collaborazione.

La componente di lavoro volontario, soprattutto nella fase iniziale di questi progetti, è molto consistente. In alcuni casi più che di lavoro volontario si potrebbe parlare di vero e proprio attivismo, soprattutto quando i progetti prendono vita in contesti in cui la presenza della criminalità organizzata e i comportamenti poco leciti sono elementi di un ecosistema con cui necessariamente occorre fare i conti. Un filo che lega numerosissime storie di impresa culturale è la capacità di far evolvere il lavoro volontario in un’attività retribuita. La necessità di tale passaggio è legata alla sopravvivenza stessa di tali iniziative, inevitabilmente destinate ad una fine, nel caso in cui almeno alcuni dei soggetti promotori non riescano ad avere una retribuzione per il tempo e le energie impiegate. D’altra parte tale passaggio risulta anche essere una necessità endemica di progetti che crescono e alimentano l’attivazione di un nucleo sempre più ampio di cittadini.

È sicuramente prematuro trarre conclusioni definitive su questo fenomeno, è necessario infatti indagare in modo più approfondito, ampliando l’analisi al fine di verificare la consistenza del fenomeno e la capacità di queste storie di sopravvivere ed evolvere. Si tratta ancora di pochi casi che però segnalano l’avvento di un fenomeno molto interessante e promettente. Non sappiamo ancora se queste iniziative rappresentano la punta di un iceberg – noi lo speriamo – o delle meteore; riteniamo però che anche lo sforzo di comprendere questo fenomeno permette di lavorare per favorire tali percorsi e fare in modo che queste pratiche si allarghino e si propaghino.