La mia storia inizia nel ’68 quando a 22 anni, mentre insegnavo educazione artistica in una scuola media, ho cominciato a occuparmi di cinema. Vedevo i ragazzini vittime di brutti programmi televisivi e di pessimi film e decisi che sarebbe stato utile far conoscere loro il linguaggio cinematografico. Così presi ad insegnare ai ragazzi i metodi per riconoscere e difendersi da immagini diseducative. Poi, anni dopo – siamo nell’’83 – pensai di fare lo stesso anche con gli adulti ma, mentre fare cinema con i bambini era una esperienza veramente divertente, con gli adulti trovavo grosse difficoltà: il mio modo di insegnare creava tra gli adulti una strana conflittualità: alcuni di loro si trasformavano in una sorta di cloni del sottoscritto mentre altri si arroccavano in polemiche opposizioni.

Con questa mia difficoltà pedagogica inizia la seconda parte della storia, datata 10 settembre 1996. Era la prima volta che mi recavo a Palermo, due miei film erano stati invitati al festival cinematografico “Palermo di scena”. Dopo la proiezione de Il bacio di Giuda, una spettatrice dichiarò: “Questo film piacerebbe molto a Danilo Dolci!”. Negli anni ’60 avevo sentito parlare di questo personaggio scomodo, delle sue battaglie e dei suoi famosi scioperi della fame, così dissi alla ragazza che, se lei lo conosceva, avrei avuto molto piacere incontrarlo.

Detto fatto! L’indomani, giunti a Tappeto, rimanemmo con Dolci tutta la giornata. Alla fine, questo gigante dagli occhi azzurri e profondi, nel congedarmi mi prese la mano tra le sue e disse: “Perché non vieni a lavorare con me?” Ero spiazzato, confuso, ma dopo un istante accettavo l’invito senza alcuna remora: “Va bene – gli dissi – vado a Pisa, chiudo casa e torno.”

Danilo mi offriva l’occasione di risolvere il mio quesito. Avevamo discusso tutto il giorno di problemi pedagogici e avevo capito che quest’uomo aveva veramente molte cose da insegnarmi e volevo conoscere il suo metodo. Gli avevo esposto le difficoltà che, come insegnante, trovavo con gli adulti. “Il problema – mi disse – è che ti ostini a voler fare l’insegnante. Non devi fare l’insegnante, devi fare l’educatore. L’insegnante pensa che i suoi allievi siano serbatoi vuoti da riempire, da “inseminare”. L’educatore fa esattamente il contrario: parte dal presupposto che ogni persona, bambino o adulto che sia, possiede dentro di sé una ricchezza sconosciuta. Bisogna solo tirargliela fuori.” – “E come si fa?” – chiesi. “Con la maieutica; partecipa ai miei seminari e lo scoprirai da solo”.

Trasferitomi in Sicilia volli subito mettermi al lavoro. Gli dissi che io insegnavo cinema e volevo capire come insegnarlo utilizzando la maieutica. “Cinema!? Non mi parlare di cinema, non lo sopporto! Né il cinema, né la televisione!” – “Ma perché? I mezzi di comunicazione di massa sono importanti…” Mi fulminò con un’occhiata: “Non usare quel termine – disse – la comunicazione di massa non esiste, è un imbroglio! La parola comunicazione è usata impropriamente per indicare mezzi diabolici come il cinema e la televisione! Sai che significa la parola comunicare?  Viene dal latino cum-munus, e vuol dire: mettere insieme i doni, creare cioè delle relazioni, degli scambi tra le persone. Secondo te, tra lo schermo cinematografico e il pubblico si crea comunicazione o si stabiliscono processi di trasmissione unidirezionale?”

Non ci avevo mai pensato, ma era vero: lo spettatore non può interagire con un film, lo può solo subire. Che avessi sbagliato a dedicare la mia vita al cinema? Raccontai a Danilo di come realizzavo i miei film e lui, incuriosito, volle vederli. In principio pareva un po’ scettico, ma dopo aver seguito in religioso silenzio Il bacio di Giuda mi disse: “E’ trasmissivo e unidirezionale come tutti i film, ma ha una sua particolarità: è maieutico, cioè produce il parto del pensiero. Obbligando lo spettatore a pensare, a usare la propria mente, lo costringe a riflettere su ciò che accade sullo schermo.” Allora, preso coraggio, gli mostrai anche “Confortorio”. Questo film gli piacque ancora più dell’altro. Disse: “Ha una grande forza, un forte impatto visivo e costringe gli spettatori a riflettere sui temi che tratta.”

Quando seppe che per realizzarli avevo affrontato anni di ricerche, disse: “Secondo me dovresti fare un film su Portella della Ginestra.” – “Portella che!?” – risposi. Allora mi portò con la sua auto in cima alla montagna – quel giorno a Portella c’era un tempo terribile. “Questo è il sasso Barbato, – indicò – dal nome dell’oratore socialista che nell’‘800, durante i fasci siciliani, invitava i contadini alla lotta. Qui, Salvatore Giuliano e la sua banda, il primo maggio del 1947 sparò sulla folla e fu una strage.” – Dopo un istante aggiunse: “Con il sangue di questi morti fu battezzata la prima Repubblica.”  Poi, voltandosi, indicò il fondo valle: – “Vedi? Quella è l’autostrada Palermo-Trapani. Laggiù c’è Capaci. Il 23 maggio del 1992, col sangue di quelle vittime, si è battezzata la seconda Repubblica”.

Turbato da quelle parole, capii che quest’uomo aveva molte cose da dirmi sulla storia d’Italia e su Portella. Mi dette da leggere libri sui quali poi mi interrogava. Fu un periodo duro, frenetico, grazie al quale scoprii come la Sicilia fosse stata un laboratorio politico straordinario. Un giorno mi portò nel suo ufficio di Partinico, tirò fuori da un armadio un grosso faldone con scritto “Portella della Ginestra” e mi fece leggere il suo contenuto. Erano carte che parevano prese nella spazzatura. Lessi in quei fogli un’inchiesta sui lati oscuri di quel primo maggio ‘47. Lui mi raccontò la storia di quelle carte: nel ‘56 aveva organizzato uno sciopero alla rovescia; aveva portato cioè 150 braccianti disoccupati a riparare una trazzera, una strada impraticabile per i danni della guerra. Vennero i carabinieri e sciolsero l’ adunata sediziosa”. Lui fu arrestato e trascorse tre mesi all’Ucciardone. In carcere aveva conosciuto alcuni membri della banda Giuliano. “Quelle sono interviste che ho fatto ai banditi.” – mi disse – “Ma stai attento: ciò che è scritto su quei fogli non è la verità: è il punto di vista dei banditi. Ti potrà servire come bussola per orientarti quando leggerai altri documenti… Tienilo presente.”

Poco prima di morire mi disse: “E’ una storia complicata quella di Portella, ma tu dovrai fare un film semplice, che lo possano capire tutti, perché se la gente capisce cos’è successo quel giorno, avrà in mano uno strumento per cogliere il senso di tutte le stragi che, dalla fine degli anni ’60, hanno insanguinato l Italia”.

Allora non compresi la portata di ciò che mi stava dicendo. Iniziai la ricerca su Portella raccogliendo in sei anni di indagini oltre 20 mila documenti. Grazie alle carte che mi aveva mostrato Danilo – che in parte avevo ricopiato – è stato possibile orientarmi nel ginepraio di depistaggi, menzogne e mezze verità con le quali gli apparati dello Stato avevano occultato le vere ragioni di quella strage.

Dopo la morte di Dolci, con uno dei suoi figli, visitammo le stanze di Borgo di Dio, scoprendo che qualcuno aveva distrutto l’archivio, bruciato le carte e infestato i muri di scritte fasciste. Nei giorni successivi scoprimmo che anche l’ufficio di Partinico era stato manomesso e molti documenti, compreso il fascicolo con le testimonianze dei banditi, erano scomparsi.

Il film Segreti di Stato sulla strage di Portella della Ginestra, realizzato nel 2003, è dedicato “alla memoria di Danilo Dolci”.