Renata Fonte, la mia mamma, è stata testimone di un’eroica partecipazione a un mondo che non vuole cedere alla rassegnazione, un esempio di coraggio civile di cui noi figlie non potremmo essere più fiere. Ha affermato il coraggio di essere donne in una società dai forti retaggi di una cultura maschile in cui la vera sfida probabilmente era quella di coniugare l’essere madri, spose, professioniste e nel suo caso anche amministratrici.
Tornata a Nardò, dopo tanto tempo trascorso in giro per l’Italia a seguire mio papà, la mamma eredita l’impegno politico dello zio Lelè, l’insigne storico mazziniano Pantaleo Ingusci. Diventa segretario del partito repubblicano e viene eletta in consiglio comunale: è il primo assessore che i repubblicani vantino a Nardò ed è una donna, una delle primissime donne in politica all’inizio degli anni ’80. Diventa, suo malgrado, leader di un movimento politico e di pensiero che aveva capito come in Salento, fino ad allora considerato un’isola felice, stessero attecchendo i metodi e i sistemi di una cultura mafiosa e denuncia quelle connivenze, quelle contiguità fra mafia e politica. È fra i fondatori di un movimento di tutela per la salvaguardia del parco di Porto Selvaggio, che era tutelato da una legge labile, facile di interpretazioni. Il suo sacrificio, però e le tante battaglie ambientaliste che esso ha generato hanno portato nel 2006 a una legge regionale, che tutela realmente il parco. Porto Selvaggio oggi è una delle dieci spiagge più belle d’Italia, un luogo in cui si ritrova la sua energia, la sua bellezza, la sua ineffabile magia nell’odore dei pini, nel cicaleccio fra gli alberi, nelle onde del mare che si infrangono sulla scogliera. Un luogo che si fa megafono della storia di Renata e ci fa sentire ancora la sua voce.
Quello della mia mamma è stato un grande esempio di coraggio civile, perché ha sfidato le logiche del potere, ma è stata lasciata sola e l’isolamento indicizza, mette al centro del bersaglio. Per questa ragione, la sua onestà intellettuale, la sua coscienza democratica, la sua abnegazione al proprio dovere istituzionale, quel senso di caritas che ispira il suo modo di fare politica al servizio degli altri, l’ecologia che ispira tutta la sua vita nell’amore e nel rispetto dell’ambiente ma anche nei rapporti interpersonali, diventano il nemico da colpire e la notte del 31 marzo 1984 al ritorno da un consiglio comunale viene assassinata con tre colpi di pistola mentre noi bimbe la aspettiamo a casa. Aveva solo 33 anni.
Quello della mamma è il primo delitto politico mafioso nel Salento, verità ancora scomoda da accettare, come se selezionare una classe politica per agevolare gli interessi illeciti di qualche oscuro ma ben identificabile potere non fosse mafia. Proprio per questo ancora oggi è difficile ricordarla, perché ricordare significa porsi delle domande, ammettere delle connivenze, ammettere che qualcuno diceva SI a qualcosa a cui Renata diceva NO!
Gli esecutori materiali ed il mandante di primo livello riconosciuto in un compagno di partito, primo dei non eletti, che secondo la sentenza si rende strumento consapevole di interessi più spregevoli, vengono assicurati alla giustizia, ma i soci occulti restano intoccabili e oggi dopo 32 anni ancora non abbiamo verità e giustizia fino in fondo.
Per noi figlie è stata dura. Abbiamo vissuto per molti anni per forza di inerzia sentendo forte il peso e la responsabilità di essere degne della storia che ci portavamo dentro, finché abbiamo capito che le commemorazioni private dovevano diventare pubbliche, che bisognava consegnare l’attualità alla storia, testimoniare l’impegno civile della mamma e continuare a dare voce a chi non l’aveva più ma aveva ancora tanto da dire. Noi familiari di vittime di mafia che abbiamo aderito a Libera scegliendo così da che parte stare, non vogliamo essere un simbolo, ma vogliamo testimoniare con la nostra scelta di campo questi esempi di vite straordinarie nella loro ordinarietà, perché non erano degli eroi, ma persone che hanno esercitato semplicemente il loro diritto a fare il proprio dovere. Se li considerassimo degli eroi ci forniremmo tutti un alibi per non fare ciascuno la nostra parte. Abbiamo seminato memoria per sottrarre il suo ricordo all’oblio, perché ricordare Renata Fonte non significa ricordare che Nardò è una città mafiosa, ma significa ricordare un esempio di buona politica e di coraggio civile.
Dopo 16 anni, grazie a Libera, la memoria collettiva è emersa. Oggi Renata è simbolo di lotta civile non solo nel Salento, ma in tutta Italia. A lei vengono intitolate scuole di pensiero, di politica, scuole, vie, piazze, viene considerata donna giusta, eretica perché ha avuto il coraggio di affermare le proprie idee anche se scomode e sconvenienti, una sognatrice di giustizia. Quest’anno alla sua memoria è stato dato il premio Ambrosoli, che assegna riconoscimenti a persone o gruppi di persone in particolare della pubblica amministrazione e delle imprese che su tutto il territorio nazionale si siano contraddistinti per la difesa dello stato di diritto tramite la pratica dell’integrità, della responsabilità e della professionalità pur in condizioni avverse a causa di contesti ambientali o di situazioni specifiche che generavano pressioni verso condotte illegali. Negli anni, anche leggendo le sentenze e l’istruttoria dei processi, una cosa mi è emersa sempre più chiara: il suo esempio coerente e credibile e la sua testimonianza di coraggio civile è ancora viva ed esemplare e ha la forza di proteggere il suo territorio e di ispirare le battaglie civili e la vita di quanti l’hanno conosciuta.
Da quando Don Luigi Ciotti ha “tuonato” nella mia vita con il suo vocione, è diventato il mio mentore, il mio punto di riferimento e ha restituito a noi familiari una famiglia che la mafia ci ha tolto. Lo voglio ringraziare perché ci dà la forza ogni giorno di consumarci nell’impegno, lo ringrazio per quella pedata di Dio che ogni tanto invoca e che ci esorta a essere una spina nel fianco, a graffiare le coscienze, a fare la nostra parte fino in fondo, con quella fame e sete di giustizia che avevano i nostri cari, e a cercare di sconfiggere l’abitudine alla delega e al silenzio, perché non si uccide solo con le armi, ma si uccide anche con i silenzi, colpevoli e responsabili che coprono le verità sui tanti, troppi delitti di mafia. Lo voglio ringraziare perché mi fa sentire quel profumo di primavera e di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale di cui ci parlava Paolo Borsellino.
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