Un open space, un ristorante e un marchio di moda. È la storia di un’amicizia tra italiani e senegalesi. Una nuova forma di impresa interculturale, “Calebasse”, nata dal progetto Africa Food and Fashion District ,sostenuto dalla Fondazione CON IL SUD con il contributo della Fondazione Banca del Monte di Foggia, per mostrare la bellezza e il valore della diversità. Ne abbiamo parlato con Rossella Russo, coordinatrice del progetto.
Come nasce il progetto Africa Food and Fashion District?
Io collaboravo con l’associazione Il vangelo della vita, quando ho conosciuto Assane Mar, presidente di Africa United. Le nostre sono due realtà che lavorano sul territorio per l’immigrazione ed è subito iniziato un rapporto di collaborazione e di amicizia. Si chiacchierava tra noi, e anche con il resto del team, su quello che si poteva fare, sulla possibilità di aprire un’attività partendo anche dal presupposto che molti prodotti africani qui vengono venduti, ma non da ragazzi africani che hanno invece una propensione all’attività economica nei loro paesi e che però qui non riescono a sviluppare in maniera adeguata.
E da questo progetto è nato Calebasse e anche nuova forma di impresa interculturale?
Calebasse è il frutto del progetto e coniugava l’esigenza di creare opportunità di lavoro, ma anche di avere un luogo di incontro per dare una visione di cambiamento sul territorio. L’impronta lavorativa è strutturata in vari settori: un ristorante, una parte dedicata al market, uno spazio per gli eventi e l’area moda ed è tutto basato sull’idea di interazione delle due culture.
Il nome calebasse deriva da una tipica zucca che si trova in Senegal e in altri paesi africani. Ci hanno anche raccontato che quando queste zucche erano molto grandi potevano essere usate come imbarcazioni. Nell’uso moderno vengono impiegate nella creazione di strumenti musicali e di complementi d’arredo. Noi Calebasse lo abbiamo immaginato come un contenitore in cui si rovescia il contenuto per restare fedeli all’idea principale di questo scambio continuo tra culture diverse.
L’impronta lavorativa si basa su tre settori, quello principale è il ristorante. Anche qui c’è contaminazione tra culture diverse?
Abbiamo fatto diverse sperimentazioni: all’inizio siamo partiti con un menu con piatti africani, principalmente senegalesi, e piatti della cucina italiana e della tradizione foggiana. Adesso stiamo sperimentando più piatti fusion tra le due cucine che però restano comunque presenti entrambe nel menu. L’interazione è anche tra i lavoratori. Nel ristorante lavorano il cuoco che è italiano, l’aiuto cuoco è senegalese e la ragazza che si occupa del servizio ai tavoli è sudanese.
È un’impresa capace di reggersi da sola sul mercato?
Noi stiamo cercando di andare verso l’autonomia perché fino poco tempo fa eravamo ancora all’interno del progetto. Non ci siamo ancora, ma andiamo in quella direzione. Anche perché tutte le attività economiche si svolgono all’interno dello stesso luogo. Il centro infatti è stato strutturato in modo tale che si possano sviluppare corsi e laboratori per adulti e bambini, eventi culturali e poi c’è l’angolo market con i prodotti del mercato equo e solidale. Stiamo cercando di sviluppare tutte e tre le aree per raggiungere l’autonomia. Abbiamo scelto Foggia, che non è un territorio particolarmente semplice in cui si fa molto difficoltà ad aprirsi alle novità e anche nell’interazione con persone straniere, per cui far conoscere una cucina completamente nuova e una tipologia di impresa differente non è semplice. Ma noi lo sapevamo, abbiamo incontrato delle difficoltà e delle resistenze però la sfida è proprio quella. E noi ce la stiamo mettendo tutta. Il lavoro è sicuramente molto lungo, i risultati che abbiamo raggiunto sono sicuramente postivi. La gente che ci viene a trovare è contenta e arrivano a noi per diversi motivi: per eventi culturali, quindi persone che sono già sensibili, oppure persone che vengono per provare una cucina nuova e questo un po’ è il nostro obiettivo avvicinare le persone ad un’altra cultura attraverso il cibo.
E il settore dedicato alla moda?
È improntato sulla formazione: una stilista italiana professionista ha disegnato una collezione, mentre tre ragazzi senegalesi hanno seguito un corso di formazione teorico e pratico e hanno iniziato a produrre gli abiti. La formazione ha avuto un esito sicuramente positivo, i ragazzi hanno avuto un attestato spendibile nel mondo del lavoro, e tra poco ci sarà una sfilata per presentare la collezione. Stiamo cercando di creare una nuova cooperativa che segua l’area moda: siamo entrati nella fase 2.0.
Ludovica Siani
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