Il lavoro dei migranti in Italia è spesso soggetto a fenomeni quali lo sfruttamento, la precarietà, l’assenza di diritti e regolamentazioni, il caporalato. Questa condizione drammatica, molto diffusa in ampie zone del nostro Paese, dipende sia da elementi contingenti che da alcune caratteristiche strutturali dell’organizzazione di produzione, distribuzione e consumo alimentare.

Se da un lato i produttori sono colpevoli di sfruttare il lavoro in nero delle fasce più deboli e meno protette della popolazione, fra cui appunto i migranti, dall’altro essi stessi si trovano praticamente impossibilitati ad offrire lavori sicuri e ben pagati per via dei prezzi bassissimi imposti al mercato dalla grande distribuzione. Come ha affermato Yvan Sagnet, leader di del primo sciopero dei braccianti stranieri in Puglia nell’agosto 2011, “Il caporalato non è che l’ultimo anello di una lunga catena di sfruttamento nella filiera agricola, mentre i principali responsabili sono le imprese, le industrie di trasformazione e la grande distribuzione organizzata, che impongono il ribasso dei prezzi dei prodotti, con drammatiche ricadute negative sui contadini, i quali non riescono più a sostenere il costo del lavoro. A pagare il prezzo di questa situazione sono i braccianti, abbandonati totalmente dallo Stato che non effettua controlli nei luoghi di lavoro né lungo la filiera.”

Secondo Coldiretti per ogni euro speso dai consumatori per l’acquisto di alimenti, circa 60 centesimi vanno alla distribuzione commerciale, 23 centesimi all’industria di trasformazione e solo il 17 all’agricoltore. Negli ultimi decenni si è infatti assistito ad un processo di concentrazione lungo tutta la filiera agricola. Un processo guidato dai colossi della Grande distribuzione organizzata che, come è noto, ormai gestiscono anche la trasformazione con marchi propri e di fatto governano tutta la filiera agroindustriale, dai campi ai banchi dei supermercati.

Una storia che illustra molto bene questa dinamica, e come essa si ripercuota sui lavoratori, è quella di Sos Rosarno, un’associazione nata in seguito alle rivolte dei lavoratori migranti nel 2009.

Sul finire del 2009 a Rosarno si respirava un’aria molto tesa. Fra i tanti immigrati, perlopiù africani, giunti nella cittadina calabrese in cerca di lavoro stagionale serpeggiavano voci di nuove aggressioni ai loro danni. Due ragazzi erano stati colpiti con delle pistole ad aria compressa, ma nell’agitazione del momento c’era chi parlava addirittura di omicidio e chi sosteneva che fossero state picchiate delle donne incinte.

Non era la prima volta che succedevano fatti del genere: già l’anno precedente c’era stata una grossa manifestazione di migranti che avevano sfilato assieme a diversi cittadini rosarnesi solidali per denunciare le condizioni di vita inumane dei lavoratori stagionali, pagati una miseria, costretti a vivere in sistemazioni di fortuna come baracche e fabbriche abbandonate e per di più soggetti a continue angherie da parte di bande di teppisti.

Il 7 gennaio 2010 la cosa andò diversamente: l’aggressione dei due lavoratori fu la goccia che fece traboccare il vaso. Decine di lavoratori immigrati, che presto divennero oltre un centinaio, si riversarono per le strade di Rosarno spaccando macchine e cassonetti. La reazione non si fece attendere. Un gruppo di rosarnesi (invero una piccola parte della popolazione locale) uscì di casa armato di bastoni e fucili e mise in scena una vera e propria caccia all’immigrato. Quegli avvenimenti passarono alla cronaca come “I fatti di Rosarno”.

Ciò che la stampa non ha raccontato però (o almeno non a sufficienza) fu che nei giorni immediatamente successivi in risposta a questa situazione nacque una iniziativa davvero rivoluzionaria: Sos Rosarno.

Sos Rosarno nasce come una campagna per mettere in regola i lavoratori stagionali a nero e si basa su tre pilastri: la piccola agricoltura biologica, la dignità del lavoro e la solidarietà.

“Siamo partiti da un’analisi della situazione – ci spiega Giuseppe Pugliese, socio fondatore di Sos Rosarno – cosa che invece la stampa non ha fatto. A loro serviva riempire i giornali e i Tg con titoloni sulla violenza ed il sangue, a noi invece interessava capire perché due categorie di sfruttati, i piccoli produttori e i lavoratori stagionali, si facevano la guerra fra loro invece di coalizzarsi.

Quello che è emerso è una sorta di catena di sfruttamento in cui il mercato, dominato dalla grande distribuzione organizzata (gdo), aveva stabilito prezzi irrisori per arance e clemetini, al punto che i piccoli produttori non potevano più permettersi di mettere in regola i propri lavoratori. I lavoratori a loro volta, sfruttati, malpagati, senza alcun tipo di copertura assicurativa e sanitaria, vivevano in condizioni drammatiche, che di certo non favorivano alcun tipo di integrazione con la popolazione locale, anch’essa vessata dalla crisi economica e dell’agricoltura. Da qui le classiche dinamiche di razzismo, guerra fra poveri, disgregazione sociale.

“Di fronte a questa situazione drammatica abbiamo avuto un’idea: proviamo a saltare la grande distribuzione e vediamo direttamente ai consumatori attraverso i gruppi di acquisto e le reti di economia solidale di tutta Italia.”

È nata così Sos Rosarno, dapprima una campagna, poi un’associazione, ora anche una cooperativa (Mani e Terra, composta da soci sia italiani che africani) che mette in contatto i piccoli produttori biologici locali con associazioni, botteghe di commercio equo e solidale e gruppi d’acquisto di tutta Italia. Un’operazione i cui vincono tutti: vincono i produttori perché non subiscono più il ricatto della gdo e vedono i propri prodotti ad un prezzo ragionevole, vincono i lavoratori stagionali perché i maggiori introiti permettono ai produttori di metterli tutti in regola e di garantire la tariffa sindacale (condizione necessaria per far parte di Sos Rosarno) e vincono i consumatori (o meglio i consumatTori, come si è soliti chiamarli all’interno delle economie solidali per rimarcare il loro ruolo attivo) perché per lo stesso prezzo hanno arance, mandarini e clementini da agricoltura etica e biologica. Inoltre una quota del prezzo viene destinata a progetti di solidarietà in tutto il mondo.

 

Andrea Degl’Innocenti