Salendo verso la cima del Gianicolo, uno dei colli più suggestivi di Roma, poco oltre la celebre fontana si incrocia il Grand Hotel Gianicolo: un albergo 4 stelle, con piscina e roof garden vista San Pietro, fino al 2013 proprietà di una famiglia legata alla ‘ndrangheta. Nonostante le aziende confiscate falliscano nell’85% (Dell’Olio, L. (2014) Perché muoiono le aziende tolte alla mafia, inchieste.repubblica.it, 18 settembre 2014) dei casi, il Gianicolo e i suoi lavoratori rappresentano uno dei successi più importanti ottenuti dallo Stato nel contrasto patrimoniale alle mafie.

La gestione criminale dell’albergo inizia nel 1998 quando Villa – Luz Casanova, fino a quel momento un convento di proprietà di una congregazione religiosa, viene acquistata per circa 11 milioni di lire da una piccola società, già proprietaria di un’altra struttura a Palmi. Questa è gestita da una famiglia calabrese che secondo gli inquirenti intratteneva da tempo rapporti con la cosca ‘ndranghetista dei Gallico. Per ottenere la somma necessaria all’acquisto della struttura e al pagamento dei lavori per il cambio di destinazione (in tempo per accogliere i pellegrini del Giubileo del 2000) la società ricorre a un prestito bancario, ottenuto, però, a condizioni definite “anomale” (Sentenza del Tribunale di Reggio Calabria – Sezione delle Misure di Prevenzione, 6 aprile 2016, p. 93) con l’offerta in garanzia di due uliveti in Calabria (Intervista a Giovanni Tizian in Roma criminale di Danilo Procaccianti in Presa Diretta andato in onda il 13 febbraio 2017 su Raitre).

Il sequestro interviene nel novembre 2013, per ordine del Tribunale delle Misure di Prevenzione di Reggio Calabria (e ad oggi il procedimento è stato confermato da una sentenza di primo grado emessa nell’aprile del 2016). Quando l’amministratrice giudiziaria nominata dal Tribunale entra nella struttura la situazione che incontra è piuttosto complessa. Evasione fiscale, violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro, contratti non regolari o del tutto assenti. Ma non solo. Dopo qualche tempo in una circostanza del tutto casuale si scopre che erano state installate delle telecamere in diversi punti della struttura che permettevano ai proprietari di controllare a distanza quanto accadeva. La rimozione delle telecamere e la messa in regola di lavoratori e strutture rappresentano solo una parte del cosiddetto “costo della legalità” che la nuova gestione si è trovata a dover affrontare. Inoltre, a partire dal sequestro sono stati effettuati numerosi controlli da parte delle autorità, fino ad allora praticamente assenti, che hanno individuato ulteriori  situazioni da sanare.

È senz’altro vero che l’ottima posizione e il pregio della struttura possono essere stati dei fattori che hanno agevolato il successo, tuttavia ci sono numerosi casi che dimostrano che non sono assolutamente sufficienti, primo fra tutti quello del Cafè de Paris in via Veneto, luogo simbolo della dolce vita, fallito dopo il sequestro.  Ciò che l’ha reso un esempio virtuoso (sia a livello simbolico che economico) è stata la capacità dell’amministratrice giudiziaria e dei lavoratori di collaborare in sinergia, riuscendo così ad affrontare i molti imprevisti e difficoltà che hanno incontrato e continuano a incontrare.

Ilaria Meli