Dalle mappe delle città alle mappe dei cittadini
Di una città si mappano tradizionalmente i luoghi. Ma sempre più frequenti sono le mappe che rappresentano le persone. In particolare diventano punti di interesse quei (gruppi di) cittadini che hanno voglia di cambiare la città e di viverla in modo nuovo, a partire dal darne una lettura inedita e dalla voglia di guardarla con sguardi diversi. Si mappano quindi gli spazi e gli edifici che parlano di sorprese urbane, trasformazioni di pezzi di città, denunce dello spreco di risorse ambientali e patrimoniali, di progetti futuri possibili, di usi informali e di altri temi. Spesso il mapparsi prevale sul mappare. La letteratura sulle mappe di comunità è immensa. Una veloce ricerca per immagini sul web può dare immediatamente l’idea dei prodotti: disegni e fumetti, plastici in materiale riciclato, patchwork di stoffa, disegni sulla sabbia, schermate digitali, schemi e diagrammi, pareti tempestate di post-it. Anche mappe che a una prima occhiata possono sembrare descrittive, a guardarle bene hanno legende interpretative: ad esempio non rappresentano gli spazi pubblici del quartiere, ma i luoghi del cuore degli abitanti.
Ad ogni mappa la sua retorica
Chiunque costruisca una mappa pone dei temi che finiscono per comporsi nella mappa come in un discorso, che cerca di persuadere chi leggerà quella mappa. Attenzione, scrisse all’inizio degli anni duemila il geografo Giuseppe Dematteis: da sempre i territori si descrivono per interpretare i luoghi e i rapporti sociali che vi si svolgono, componendo “una geografia dei significati intrinsecamente valutativa ed anche implicitamente progettuale, nel senso che prefigura e delimita il campo delle attese e degli interventi” (Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Giuseppe Dematteis). Per alcuni cittadini del Sud Italia ribaltare le retoriche tradizionali con cui le proprie città vengono da tempo descritte può essere la molla del cambiamento. Alla mappa come insieme di discorsi dà molta importanza “MappiNa”, l’ormai nota piattaforma alternativa di Napoli nata per andar oltre “le immagini stereotipate di Napoli” attraverso “la varietà dei linguaggi con cui si esprime la città”; una mappa che “si è rivolta così non alla città enunciata (dei libri, le cartoline, le guide, etc) ma quella che enuncia, che produce racconti e immagina. A quella città che arpeggia tracciando geografie plurime e variabili, e quella città siete voi, abitanti, studenti, operatori in campo culturale e tutti coloro che catturano – attraverso foto, video e testi – l’esperienza quotidiana della città”.
2013: mappare la Sicilia occidentale per mettere in comune le risorse
Da quando, alla fine del 2011, sono arrivata a Palermo ho osservato e partecipato a molti sforzi di mappatura. Molto di frontiera fu quello della rete Mettere in Comune nel maggio 2013, ai Cantieri culturali della Zisa, la mappa era uno degli strumenti che erano stati identificati per “identificare, mobilitare e organizzare le risorse e il coinvolgimento dei cittadini per la lotta contro la povertà e la precarietà”. Ricordo che una stanza era stata dedicata alla proiezione di una mappa della Sicilia occidentale con decine e decine di segnalazioni di pratiche innovative: cura di spazi verdi e orti condivisi; riuso, riciclo, scambio; attività di cura per l’infanzia, per le persone dipendenti, per l’accoglienza dei migranti; lavoro; economia di relazione; diritti fondamentali e libertà delle persone, applicazione e difesa della Costituzione.
2014: il principio della sussidiarietà si concretizza
La mappa dei palermitani attivi nasce a sua volta da un principio costituzionale introdotto nel 2001, quello della sussidiarietà: “Stato, regioni, province, città metropolitane e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118, ultimo comma). Nel 2014 l’utopia della sussidiarietà si è concretizzata a Bologna nel primo “Regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”: amministrare la città in modo condiviso, attraverso patti di collaborazione in cui si alleino soggetti pubblici, privati e del terzo settore. Labsus, il laboratorio per la sussidiarietà che ha supportato la città di Bologna a redigere e ad approvare il Regolamento, inizia da allora un capillare servizio di supporto a decine di città in cui, fuori e dentro i municipi, si spinge per provare ad amministrare i beni comuni in modo condiviso.
Dove, in Italia, si può iniziare a praticare l’amministrazione condivisa?
Solo a Bologna si può fare? Questa è la domanda ricorrente, soprattutto in contesti stigmatizzati e bloccati da pregiudizi reciproci: a seconda delle prospettive, si giudicano inadeguati i responsabili politici, le figure con ruoli tecnici nelle amministrazioni pubbliche, chi opera nel terzo settore, i soggetti privati, fino ai comuni cittadini e ai gruppi informali costituiti dagli abitanti. Insomma: al Sud si possono amministrare le città in modo condiviso sì o no? Sì, ma la risposta va qui brevemente argomentata: se è vero che la risposta negativa rischia di essere paranoica, è anche vero che quella positiva rischia di essere ideologica. Sono quasi due anni che Labsus segue decine di città italiane del Sud, del Centro e del Nord Italia che hanno approvato e stanno approvando il Regolamento, o che vogliono iniziare a capire meglio di cosa si tratta. La risposta alla domanda posta sopra è positiva, solo se da parte degli italiani esiste la volontà di collaborare nell’interesse generale attraverso azioni di cura, rigenerazione e riuso dei beni comuni urbani e territoriali. È negativa se chi ha un ruolo politico ha adottato il Regolamento poi non lo usa, se chi ha un ruolo negli uffici tecnici comunali non vuole cambiare la propria routine; ma è negativa anche se non prendono corpo forme di società responsabile. La mappa dei palermitani attivi è la rappresentazione delle energie che si muovono proprio nella direzione dell’attivarsi e del responsabilizzarsi.
L’obiettivo: incrociare i beni comuni con le energie dei cittadini attivi
Spesso l’attenzione di chi vuole cambiare le cose si concentra sulla mappatura dei beni comuni: quante volte mi è capitato di sentire cittadini attivi chiedere ai propri amministratori pubblici locali una lista aggiornata degli spazi e degli edifici pubblici. È una richiesta legittima, ma nella prospettiva dell’amministrazione condivisa non è la richiesta che ritengo centrale, per due motivi. Primo: c’è una gran differenza tra beni comuni e beni comunali. Nella nostra mappa appare evidente che molti palermitani si prendono cura di luoghi che non sarebbero mai stati inseriti in un elenco ufficiale dei beni comunali redatto da un ufficio comunale della Città di Palermo. Secondo: le città italiane, e il capoluogo siciliano su tutte, hanno un immenso – e per certi versi vertiginoso – patrimonio (im)materiale. Il tema vero, sempre in ottica di amministrazione condivisa, è di capire su quali temi, luoghi e/o edifici i palermitani attivi vogliono investire le proprie energie. A queste due osservazioni si potrebbe obiettare che un elenco trasparente dei beni pubblici favorirebbe il lavoro dei cittadini attivi. Certo. Anzi, in teoria è un diritto; in pratica però bisogna capire non solo se per attivarsi vale la pena di aspettare i tempi della burocrazia, ma anche in base a quali stimoli si attivano veramente le persone.
2015: la mappa dei palermitani attivi
Se devo aprire una libreria in una città farò prima una ricerca di mercato e poi deciderò dove localizzare la mia attività. Ma non è così che funziona la scelta dei cittadini che scelgono di avere un ruolo attivo: migliaia di palermitani sono oggi attivi nella cura, rigenerazione e co-progettazione del Parco Uditore. Solo qualche anno fa nessuno avrebbe scommesso su quel pezzo di città, tanto meno lo avrebbe segnalato come risorsa di interesse generale (era addirittura un’area edificabile). In che rapporto sta l’attivismo con il recupero e la valorizzazione dei beni culturali inutilizzati? Il Regolamento di Labsus ha una proposta precisa in merito: i beni comuni possono diventare oggetto di patti di collaborazione. La mappa dei palermitani attivi oggi è stata interpretata come la rappresentazione della “città fai da te”. Ma lo scopo per cui è stata disegnata non è questo, bensì quello di incoraggiare i palermitani, compresi gli amministratori pubblici della città e i funzionari municipali, ad andare verso l’amministrazione condivisa, perché la società responsabile palermitana non è solo lì, visualizzata sulla mappa, ma in molti casi è anche già pronta per collaborare immaginando alleanze che si potrebbero concretizzare come patti di collaborazione che interessino in modo molto puntuale e ben circostanziato i soggetti privati, del terzo settore e pubblici.
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