C’è stata una fase storica in cui il dibattito sullo sviluppo del Mezzogiorno ha preso in considerazione quella variabile che oggi definiamo omnicomprensivamente come “sostenibilità” e che allora si declinava meglio come attenzione alla vocazione dei territori, alla coesione sociale, all’istruzione e alla formazione di classi dirigenti responsabili e valide, al ruolo della politica come forza capace di rendere possibili e attuabili progetti strategici e di lungo periodo. Alcuni esempi? Dal pensiero di Giorgio Ceriani Sebregondi a quello di Manlio Rossi-Doria e, prima ancora, all’esempio di Governo di Giuseppe Zanardelli, nei primi anni del ‘900[1].
Una stagione che, con forti discontinuità anche temporali, immaginava un altro Sud e un altro Paese rispetto a quello che poi è stato costruito. Ha vinto infatti un’altra visione dello sviluppo, quello basato sulla logica dell’offerta, dell’approccio quantitativo e che ha prodotto una serie di distorsioni nel sistema (dal clientelismo alla mancanza di reti orizzontali) ben radicate nel tessuto civile e politico e che rappresentano oggi un grande ostacolo per qualsiasi azione innovativa e di cambiamento. La grande produzione è stata la bussola che, oggi diremmo per fortuna, ha toccato solo pochi territori con esempi di isolati mega impianti che non a caso sono stati definiti “cattedrali nel deserto”. E che hanno prodotto, come sottolinea Tonio Attino nel suo intervento su Taranto, una doppia valenza: positiva in termini di occupazione (interessando almeno tre generazioni di tarantini) e di speranza di futuro; negativa in termini di impatto sulla salute, sull’ambiente e in generale sulle già fragili dinamiche sociali. Come abbiamo visto nell’articolo di apertura sul tema “Ambiente è sviluppo”, i riferimenti e le direttive europee sulla sostenibilità dello sviluppo non mancano e sono stati recepiti da tempo anche dall’Italia. Il nostro Paese, però, oltre ai casi eclatanti di contrapposizione tra ecologia ed economia, tra produzione e ambiente – evidenziato nell’intervento di Paolo Giacomelli -, tra salute e lavoro – che, come ha sottolineato Erri De Luca , sono in contrasto da sempre – ha una specificità nella diffusa fragilità della conformazione geologica dei territori, aggravata dai livelli di incuria e mancanza di una radicata cultura della manutenzione oltre che naturalmente di “strategie” di intervento. Come ha sottolineato Aurelia Sole nel suo articolo, le soluzioni ci sono.
Il problema allora non è da ricercare nella mancanza di ricette. E neanche di prospettive e approcci economici alternativi, “generativi” che, come ci spiega bene Leonardo Becchetti, si basano su sensibilità, nuovi comportamenti e scelte più “etiche”.
Non mancano neanche gli esempi internazionali, come ha evidenziato Salvatore Giannella. Altro aspetto importante e soprattutto incoraggiante è la risposta che viene dalle comunità locali e in particolare dai giovani. Le esperienze sono tante. Lo dimostrano le importanti azioni di denuncia, di verifica e di proposta che vengono dalla terra dei fuochi, raccontate da Francesco Pascale, presenti nel rapporto di Legambiente e che troviamo anche nella concretezza del progetto di Teverolaccio. Lo dimostrano i ragazzi di LUA che hanno ridato vita ad un bene comune nel Salento, portando l’esperienza del Parco dei Paduli e dei suoi uliveti secolari come buona pratica italiana (l’unica a rappresentare il nostro Paese, selezionata dal MiBACT) al Premio del Consiglio d’Europa. Lo dimostra anche la partecipazione dei cittadini ad un progetto – cinematografico, radiofonico ma soprattutto di comunità – di ri-costruzione dei fatti, degli stati d’animo e delle contraddizioni di Taranto, illustrato dal regista Paolo Pisanelli.
Dovendo trovare un elemento che accomuna tutte le esperienze e gli approcci fin qui raccontati, potremmo dire che questo ruota attorno ai concetti di “corresponsabilizzazione” e di “azione pubblica” che, come emerge dagli interventi, si confondono e prendono un significato diverso da quello tradizionalmente conosciuto. Un significato nuovo di “pubblico”, che non coincide più soltanto con lo Stato, ma con la collettività, con una pluralità di attori e che, dunque, sottintende un’azione di responsabilità diffusa e la ricerca di alti livelli di coesione sociale.
Questo è anche il senso dell’intervento della Fondazione CON IL SUD, creare “opportunità concrete” per le nostre comunità, per sperimentare e ricercare, insieme, soluzioni sostenibili alla creazione di sviluppo locale, costruendo percorsi di legalità, di coesione sociale e di valorizzazione dei beni comuni.
E’ in corso un bando che riguarda proprio la tutela dell’ambiente, in particolare delle aree naturali protette che al Sud sono oltre 200. Si richiedono proposte di intervento in rete, con la partecipazione di organizzazioni non profit, enti pubblici e privati. Ma si prospettano altre iniziative, una “provocazione” che andrà dritta al cuore del problema e della assurda contraddizione che è al centro di questo dibattito.
[1] Per ri-scoprire il pensiero di autori che in passato avevano già affrontato il tema dello sviluppo del Sud da un punto di vista più “qualitativo”, consigliamo di consultare una serie di volumi la cui riedizione è promossa dalla Fondazione CON IL SUD con pubblicazione annuale. “La scoperta del Mezzogiorno. Zanardelli e la questione meridionale” (Edizioni Studium, 2014); “La via del Sud” di Riccardo Musatti (Donzelli Editore, 2013); Antonio Gramsci – Luigi Sturzo “Il Mezzogiorno e l’Italia” (Edizioni Studium, 2012); “Una vita per il Sud. Dialoghi epistolari 1944-1987” di Manlio Rossi-Doria (Donzelli Editore, 2011); “Credere nello sviluppo sociale. La lezione intellettuale di Giorgio Ceriani Sebregondi” (Edizioni Lavoro, 2010).
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