L’intervista a Gavino Sanna, pubblicitario e scrittore

Cultura, talento, semplicità e rispetto verso le persone a cui ci rivolgiamo. Sono queste secondo Gavino Sanna le basi per costruire una comunicazione efficace e capace di generare cambiamento. Tra i più famosi e premiati pubblicitari al mondo, ha uno sguardo critico sia nei confronti dell’ “era” di Carosello, che ha preceduto la sua importante carriera, sia delle modalità di comunicazione imposte oggi dalla Rete. La velocità e la facilità di entrare in contatto con l’altro sono grandi opportunità che, se non colte in maniera corretta, non sono in grado di generare davvero un cambiamento sociale.

<<Quante volte ho visto la gente che scendeva in piazza per salvare le foreste dell’Amazzonia! E mi chiedo perché non scendono a pulire il giardinetto di fronte casa, che è più semplice. No, perché in quel caso bisogna lavorare>>. Questo è Gavino Sanna, che tiene molto ad <<una regola importante, cioè non ricorrere a tutto ciò che è urlato. Anche se cambiano i tempi, il rispetto, l’educazione, il talento, non cambiano mai>>.

Sanna ha svolto la sua attività tra gli Stati Uniti e l’Italia, ricevendo prestigiosi riconoscimenti come i 7 Clio, oscar della pubblicità americana, i 7 Leoni a Cannes e, nel nostro Paese, il Telegatto per la pubblicità della pasta Barilla (1986). Si è occupato inoltre di comunicazione politica, curando diverse campagne elettorali, di pubblicità sociale e ha espresso il suo estro creativo anche come caricaturista. Dal 2006 si dedica alla sua azienda vinicola, in Sardegna.

 

In un’intervista ha affermato che stiamo vivendo la “terza era della pubblicità”: dopo quella di Carosello e quella degli anni ’80 che ha rivoluzionato la comunicazione moderna, siamo nel “far west” di Internet. Crede che, al di là delle indubbie potenzialità tecniche che la Rete ha permesso, questa terza rivoluzione “social” abbia influenzato anche le idee? Dal punto di vista creativo vede delle differenze rispetto al passato?

Partiamo soprattutto dalla parola “idee”, che vuol dire preparazione, cultura, possibilità di espressione, vuol dire avere talento. Tutte cose che mancano oggi. Il fatto di potersi esprimere in quattro righe, di essere presenti dappertutto avendo la possibilità di offendere le persone senza badare al significato delle parole, è tutto un pasticcio! Questa non è comunicazione, è immondizia. Non è il computer che deve fare il lavoro, siamo noi. Se non abbiamo talento, se non sappiamo che cosa scegliere e cosa chiedere alle varie “macchine delle idee”, non serve a nulla.

Dunque è come avere a disposizione una strumento potente senza utilizzarlo in maniera adeguata.

Assolutamente. La cosa più potente è la nostra “zucca”!

Alla luce di questa rivoluzione, su cosa è necessario puntare oggi per dar vita ad una comunicazione efficace e capace di “produrre un cambiamento” nella società?

Cultura, cultura, cultura! La cultura ti dà la possibilità di parlare con la gente, di prenderla per mano e portarla dove vuoi, di spiegare un prodotto, di parlare bussando alla porta del consumatore, senza sbattere in faccia qualunque cosa nella speranza di essere visti o conosciuti. La comunicazione è una cosa semplice. C’è una frase che mi porto sempre dietro, è di Leo Longanesi, uno dei miei eroi. Parlando con un giovane scrittore disse: “Se lei deve dire che ha fame, scriva <<ho fame>>”. Lo diceva a Vitaliano Brancati, questo la dice lunga. Cultura e semplicità, su questo si deve puntare. La comunicazione, la pubblicità, è voler bene al consumatore. Far vendere qualsiasi cosa a qualsiasi costo non è voler bene al consumatore, ma è prenderlo in giro, è una vigliaccata.

Nel corso della sua carriera si è occupato anche di pubblicità sociale. Quali obiettivi e quali principi hanno guidato principalmente i suoi lavori in questo campo?

La pubblicità sociale serve ad avvicinarsi alle persone che hanno bisogno. Ho paura però che molte volte sia usata per “sentirsi un po’ bene”. Chi la fa è tranquillo perché ha fatto un’opera di bene.

La pubblicità sociale è utile, ma ho bisogno di sapere chi la fa, dove vanno i soldi, chi li segue, che succede qualche cosa, altrimenti non serve a nulla.

Nelle mie pubblicità sociali sono stato guidato dalla voglia di fare. Mi sono occupato di campagne contro gli incendi in Sardegna, contro la caccia, per la lotta alla talassemia. Ho fatto il primo spot contro l’AIDS mentre l’allora Ministro della Sanità, Donat Cattin, teneva gli elaborati delle agenzie di pubblicità da oltre tre anni nei cassetti di chissà quale ufficio. Io, per conto mio, ho prodotto uno spot, l’ho presentato al Festival di Cannes, ho trovato degli amici che hanno lavorato per me, ho chiesto a grandi musicisti di regalarmi una colonna sonora che a me serviva. A Cannes questo spot è stato premiato con il Leone d’Oro e poi ho insistito perché venisse mandato in onda. Ed è andato in onda.

In passato alcune sue campagne sociali sono state considerate da alcuni “troppo forti” per le loro immagini. Oggi siamo abituati a vedere, più di prima, immagini “troppo forti” ovunque, in Tv nei tg e nelle fasce protette. Se qualcuno proponesse adesso quegli spot la reazione sarebbe la stessa?

E’ stata criticata una campagna contro la povertà realizzata per il settimanale Vita. Avevamo preso delle situazioni vere, fotografie, spezzoni di film, in cui si vedeva gente sofferente, moribonda. Il problema non è essere gentili a tutti i costi per non disturbare la gente. La gente, invece, va disturbata, altrimenti non cambia nulla. Non so dirle quale sarebbe oggi la reazione.

Fino a che punto, oggi, la comunicazione sociale può far leva ancora sulla potenza e sulla crudezza dell’immagine?

L’immagine è comunicazione, bisogna saperla usare. E’ come la macchina da scrivere, la matita, la penna. E’ uno strumento. Dipende da noi. E’ come la tavolozza, ci sono tanti colori, se si usano a dismisura il capolavoro non riesce. E ritorniamo a parlare di cultura, di talento, di gusto. Fa tutto parte dello stesso discorso. Io non credo nella volgarità, nella violenza, nel sangue a tutti i costi. Si può parlare e convincere il consumatore in maniera diversa. Perché il consumatore è uno come noi.

Dal punto di vista della comunicazione, quali sono secondo lei le potenzialità – ancora inespresse – del mondo del non profit italiano? Ha dei consigli o suggerimenti da dare?

Non ho consigli, né sono predicatore di una cosa che riguarda magari soltanto me e il mio modo di parlare ed esprimermi, di ascoltare la gente. Noi abbiamo un mondo a disposizione.

Tutti gli strumenti – che vengono utilizzati male secondo me – possono essere usati per raggiungere un risultato finale. Poi ho sempre dei dubbi su queste cose che nascono ogni cinque minuti. Le faccio un esempio. Quante volte ho visto la gente che scendeva in piazza per salvare le foreste dell’Amazzonia. E mi chiedo, ma perché non scendono a pulire il giardinetto di fronte casa, che è più semplice? No, perché in quel caso bisogna lavorare.

La comunicazione è talmente vasta ormai, dà talmente tante opportunità, da internet alla possibilità di scriversi in poco tempo.  Ma non è vero che tutto è comunicazione, molte di queste cose sono immondizia. Pensi che bello poter chiacchierare come stiamo facendo noi e  magari sedersi a tavola, guardarsi negli occhi, capire chi siamo, quanto bene possiamo fare, non urlando, non usando parole volgari.

E secondo me una regola, non solo di comunicazione ma di vita, è quella di non ricorrere a tutto ciò che è urlato. Ho sempre cercato di produrre una comunicazione gentile, non urlata, che rispetti il consumatore. Quindi anche se cambiano i tempi, il rispetto, l’educazione, il talento, non cambiano mai. Se ci sono siamo fortunati, altrimenti pazienza.

Intervista a cura di Manuela Intrieri