L’incertezza è la costante dei nostri giorni. E’ la conseguenza di una profonda crisi – ormai lo sappiamo – strutturale più che congiunturale i cui effetti – non servono aruspici e indovini per convincerci – incideranno profondamente nel futuro. Quanto sta accadendo è figlio di una crescita esponenziale della complessità, delle evoluzioni economiche, organizzative, sociali, demografiche, politiche, tecnologiche e last but not least, culturali dell’epoca contemporanea. Per provare a ritrovare la rotta in questo mare grosso dobbiamo ripartire dalla dimensione culturale.
In questo contesto, l’artigianato e la dimensione dell’artigianalità, espressione delle radici profonde del genius loci e del DNA dei nostri territori, rappresenta un settore verso cui dirigere attenzione, energie, ascolto. Investire nell’artigianato significa partire, per l’appunto, da un grande progetto culturale e sociale per riappropriarsi di quella capacità creativa e sartoriale propria del nostro Paese che, da sempre, riesce ad emozionare il mondo. Perché questo accada è necessario costruire progetti di filiera attraverso cui il talento creativo, quello artigiano e quello imprenditoriale dialoghino sempre più intensamente. L’artigiano trasforma le idee dei designer in forma visibile, anche attraverso le competenze e la forza dell’identità dei luoghi, trasformando la materia in oggetto d’arte.
Serve sviluppare reti, progetti di filiera e una diversa narrazione che sovverta l’idea di botteghe polverose e desuete, ma piuttosto insista sulla possibilità di mettere in pratica passione, restituendo “all’intelligenza delle mani” quella dignità che la rivoluzione industriale ispirata ai canoni del taylorismo e del fordismo e ad un approccio “scientific management” gli hanno sottratto. Penso, ad esempio, allo straordinario e recentissimo “Homo Faber” a Venezia, una mostra illuminante, a detta di molti, ma anche straordinaria piattaforma di incontro e racconto, realizzata dalla Michelangelo Foundation e dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, che ha davvero cambiato il modo di comunicare l’artigianalità, tornando a raccontare storie di persone e territori, facendo emergere il lato meno visibile del lavoro artigiano: non l’oggetto, ma il processo di produzione. Il potenziale economico dell’artigianato è altissimo e credo che, dovendo scegliere qualcosa su cui concentrarsi per il futuro, sia necessario ripartire dalla consapevolezza che per l’Italia e per l’Europa intera, e in particolare per tutti quei paesi affacciati sul mediterraneo, visto il numero di culture artigiane, questo è un settore capace di produrre un reale vantaggio competitivo che può essere sfruttato sia dal “piccolo” artigiano che oggi fonda spesso la sua sopravvivenza su economie informali, sia dalle medie e grandi imprese che nella loro “biodiversità”, oggi per essere competitive, devono recuperare una specificità sartoriale e custom made.
Bisogna cambiare prospettiva, sapendo che valorizzare l’eccellenza degli artigiani passa per tre azioni: da un lato, nell’attenzione a salvaguardare una filiera fragile che rischia di scomparire velocemente, mettendo a repentaglio un patrimonio dell’umanità assimilabile per importanza e grandezza ai Beni Unesco, dall’altro nell’intenzione a risvegliare nei giovani un interesse autentico verso queste professioni, restituendo il giusto valore ai mestieri e alle arti applicate, come un campo in cui i giovani possono trovare una propria via soddisfacente all’ingresso del mercato del lavoro, infine rendendo visibili oltre ai manufatti le storie di chi le ha realizzate, lavorando sugli immaginari collettivi. L’artigianato, oggi più che mai, rischia di vivere di relazioni esclusive, soprattutto con le aziende del lusso, la domanda invece che dobbiamo porci è se questo settore, doverosamente accompagnato, concetto assai diverso dall’essere assistito, possa trovare una sua sostenibilità ulteriore ed essere un motore di sviluppo anche per segmenti meno ricchi, ma con ampie possibilità di costruire progetti innovativi e ad alto impatto sociale.
Il bando “Artigianato”, esperienza nuova anche per Fondazione CON IL SUD, credo guardi proprio in questa direzione, ovvero ripartire dal riconoscere nel valore culturale dell’artigianato, un valore economico e di comunità, leva per il riscatto di persone e territori. Sono diverse le eccellenze nazionali di artigianato al Sud che rischiano l’oblio e la perdita e che invece potrebbero avere un importante rilancio proprio puntando sul ricambio generazionale, attraverso la ri-costruzione di un’offerta formativa, penso ad esempio ai percorsi di alternanza scuola-lavoro, che recuperando la dimensione dell’apprendistato e dell’andare a bottega come momenti fondamentali per la comprensione autentica del mestiere tradizionale, oggi si mescolino con il sapere digitale, le nuove frontiere dell’ e-commerce e dello storytelling. Una formazione circolare, dunque, dove innovazione e memoria, sovente separate in casa, trovino nuove modalità di convivenza basate su scelte etiche e comunitarie, aprendosi ai giovani, alla creatività, all’innovazione, alle nuove tecnologie, alla contaminazione con altre filiere, tenendo ben ferme le proprie radici nei territori e nella relazione con i vecchi artigiani che sono, oggi, gli unici e ultimi depositari dei mestieri. E sono molte le imprese sociali nate in realtà difficili del Mezzogiorno che catturano l’interesse e la volontà dei giovani che vedono nell’artigianato e nella bellezza una via concreta per dare forma ai loro sogni.
Ora bisogna lavorare perché un tessuto imprenditoriale, incuriosito dalla cultura e dalla creatività come opportunità di innovazione, ma spesso totalmente impreparato a entrarci in relazione, decida di investire e scommettere sulla costruzione di modelli e strumenti economici alternativi, ad esempio con la costituzione di un fondo di investimento dedicato e con percorsi di incubazione, che, però, sappiano concretamente costruire relazioni e contaminazioni tra le imprese e i loro spesso difficili processi produttivi e distributivi, e il mondo dell’artigianato e degli artigiani, sviluppando soluzioni innovative al confine tra profit e non profit, pubblico, privato e società civile, dove a prevalere sia una spiccata dimensione collettiva, nell’ottica di una partecipazione diretta e di una responsabilità diffusa. Non credo esista una ricetta unica e valida per tutti i territori, applicabile orizzontalmente ad ogni contesto e soprattutto ad un settore così variegato, puntiforme e “variopinto” come è l’artigianato, in particolare italiano.
E infine credo che il successo o l’insuccesso dipenda dalla chiarezza condivisa da parte delle istituzioni, e dei tanti attori oggi coinvolti (università, fondazioni, associazioni di categoria e non profit, imprese, esperti, enti e soggetti dei territori) che stiamo parlando di un processo di innovazione sociale in piena regola che non può prescindere da una sperimentazione e da una ricerca dove a prevalere non sia il “saper fare del singolo”, ma la capacità collettiva di partire, attraverso l’immaginazione (design thinking) e la creatività (problem facing), da un’intuizione comune e svilupparla sino a trasformarla in pratica diffusa. Mi riferisco, dunque, alla necessità di pensare che “saper far bene, per star bene”, oggi, coincide totalmente con il “saper essere”, che credo sia espressione di quel “nuovo umanesimo” su cui ormai da diversi anni ci interroghiamo e che, a mio modesto parere, ha prodotto anche diverse e diffuse buone pratiche. La sfida ora è superare il racconto della prassi, cosa che espone ad un alto rischio di autoreferenzialità, e sviluppare modelli sostenibili, flessibili, replicabili, testati e la cui misurabilità nasce da un’esperienza di “cantiere”, capaci di incidere in modo energico sulle politiche.
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