«Non c’è luogo della Sicilia, da oriente a occidente, che non sia stato raggiunto dalla tradizione dell’Opera dei Pupi nelle sue diversità stilistiche e di appartenenza autoctona al territorio». È il Maestro Fiorenzo Napoli, direttore artistico della Compagnia Fratelli Napoli, che da quattro generazioni tramanda i “saperi della mano” e le regole del mestiere legato all’artigiano artistico dell’Opera dei Pupi catanese, ad accompagnarci alla scoperta di una tradizione antichissima dell’Italia meridionale e soprattutto della Sicilia.
Dichiarata dall’Unesco patrimonio immateriale dell’Umanità, l’Opera dei pupi, un particolare tipo di teatro delle marionette, è capace di trasportare lo spettatore in un mondo magico, fatto di cavalieri, gesta nobili ed eroiche. Nel centro storico di Catania si trova l’antica bottega dei Fratelli Napoli che, tra passato e futuro, tiene viva una tradizione che rischiava di scomparire. E non manca anche una grande attenzione per il sociale. Tra i vari progetti, “Le vie del legno”, realizzato con una cordata di associazioni, puntava a far produrre alla tradizione occupazione e lavoro, ma dando anche la possibilità di far apprendere ‘il mestiere dei pupi’ alle persone affette da disabilità visiva e ai ragazzi di quartieri disagiati.
Allora Maestro Napoli, l’Opera dei Pupi ha dato origine a forme di artigianato artistico, tra pupi, scene e cartelli, creando manufatti tra i più significativi dell’arte popolare siciliana, è così?
L’Opera dei Pupi ha fatto sì che si creasse attorno a sé un entourage umano che rispondesse alle continue richieste di una tradizione che, nel periodo d’oro, cresceva sempre più, facendo aumentare la necessità di commissionare ai vari artigiani, ramaioli, lattonieri, stagnini, ebanisti, scultori, sarti, un numero elevatissimo di armature e strutture lignee, delle quali i pupi sono fatti, con delle caratteristiche ben precise. La tradizione imponeva, infatti, dei canoni precisi ben riconosciuti e riconoscibili dal pubblico, come una sorta di carta d’identità che variava in basa al colore dei vestiti, alle sembianze, al color dei capelli, baffi, occhi per capire ogni volta entrando in scena con chi si aveva a che fare. Si necessitava dei fondali, dei cartelli, delle teste di ricambio, degli animali di scena quindi c’erano artigiani a 360 gradi che riuscivano a coprire tutte queste esigenze innescando per tantissimo tempo un grandissimo scambio anche economico tra artigiani e pupari.
Ma poi cosa è successo? Anche l’arte marionettisica è entrata in crisi?
Quello che è successo dopo è stata una crisi che non si è manifestata nell’immediato. Certo, ci sono state delle avvisaglie, qualcosa cambiava nella società, ci si avviava verso una necessaria industrializzazione del sistema e quindi il pubblico dell’Opera dei pupi iniziava a disertare e venivano meno le commesse. A poco a poco il puparo doveva stringere la cinghia limitando l’acquisto dei pupi, le commessioni artistiche e provava, quando era possibile, a riparare da sé i pupi.
Che rapporto c’è tra la tradizione dell’Opera dei pupi e la tecnologia?
Certamente positivo. L’Opera dei pupi deve affrontare le necessità del quotidiano, non deve, solo perché fa parte della tradizione, essere un déjà vu, lontano da quello che può influenzarlo positivamente, facendo attenzione però a non modificare quelli che sono i codici gestuali.
Scommettere sull’artigianato può essere la vera sfida per rilanciare, attraverso la tradizione, l’economia e il Sud?
Noi ci abbiamo sempre scommesso. La famiglia Napoli, da quasi cinque generazioni, ha fatto un patto di sangue con la tradizione. Noi abbiamo capito, come ha scritto Alessandro Napoli, antropologo di famiglia, che una tradizione vive tra permanenze e mutamenti, non può essere una tradizione polverosa, che guarda solo al passato senza aprirsi alle necessarie visioni contemporanee.
Oggi però tantissimi maestri artigiani non ci sono più e con loro è sepolta la loro storia, la loro bravura. Noi ci siamo salvati, perché in ambito familiare, l’amore per la tradizione ha fatto sì che imparassimo a costruire i pupi, lavorare i metalli, fare i fondali e tutto il resto.
Secondo lei perché soprattutto i giovani non hanno capito che la tradizione può essere una risorsa?
Per gli altri è più difficile, oggi un giovane deve seguire un maestro e deve scommettere sulle proprie forze con tantissimi sacrifici, senza avere la memoria storica di questa tradizione. È intercorso un cinquantennio di totale devastazione della nostra identità culturale. Tutto quello che era connesso con la memoria storica è stato cancellato e rifiutato perché dovevamo affrontare una modernizzazione, intesa come un passaggio successivo, che non è stato, come doveva essere invece, un continuum temporale guardando al passato. Io mi auguro che tanti mestieri possano tornare a vivere, e che i giovani che intraprendono questo percorso ce la facciano, sarebbe una bella scommessa.
Il lavoro artigiano restituisce dignità non solo alle cose “fatte a mano”, ma anche alle persone, è così?
È veramente un atto creativo. L’artigiano è un artista che con le proprie mani, nell’umiltà della sua bottega produce cose egregie basandosi sugli insegnamenti avuti da bambino, sviluppati nel corso della propria maturazione artistica, creando cose non seriali, ma uniche nel loro genere.
Cosa si aspetta per il futuro dei Pupi?
Mi aspetto sempre più pubblico, come quello che siamo abituati ad avere grazie all’impegno di tutta la famiglia, ma è un pubblico che a volte ha delle aspettative diverse e non sa niente dell’Opera dei pupi e pensa che in maniera stereotipata sia solo uno sterile sbatacchiamento di pupi cristiani e saraceni. Invece l’Opera dei pupi è un teatro della parola, con il quale riusciamo a far vivere, commuovere, appassionare e come diciamo sempre al pubblico: sia per voi, come lo è per noi, un’ora di draghi, cavalieri, dame. Credeteci, come ci crediamo noi.
Ludovica Siani
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