In un numero che si occupa di artigianato non potevamo non parlare di quelle che sono spesso definite le officine artigianali del terzo millennio: stiamo parlando dei Fablab e dei loro “abitanti”, i makers. Nei Fablab la creatività e la socialità tipiche delle botteghe si uniscono con tecniche di fabbricazione digitali e macchinari innovativi. Abbiamo contattato Mauro Jannone, maker del Fablab Roma Makers, per farci raccontare questa realtà attraverso gli occhi di chi la vive quotidianamente e ne conosce a fondo le caratteristiche e la filosofia.

Partiamo dalle basi, che cos’è un Fablab?

Fablab è la contrazione di fabrication laboratory, laboratorio di fabbricazione: si intende uno spazio dove ci sono persone e attrezzature. Persone perché il punto di forza e la novità di un Fablab sta nel suo essere uno spazio condiviso, dove ci si contamina. C’è una condivisione di idee, competenze e canali personali e professionali che vengono incrociati con quelli degli altri. D’altra parte è anche uno spazio di attrezzatura: nello specifico si parla di digital fabrication, ovvero tutti quei processi che partono da un’idea che nasce nelle nostre teste ma che si sviluppano tramite software di disegno e poi vengono realizzati con l’utilizzo macchinari a controllo numerico, che possono essere additivi come le stampanti 3D oppure sottrattivi come le frese a controllo numerico o le macchine a taglio laser. In ogni caso c’è un cervello elettronico che segue dei percorsi bidimensionali o tridimensionali per realizzare da un dato materiale un certo modello che si è disegnato. Oltre a questo, un Fabab è anche uno spazio di autocostruzione dove si impara progettare e costruire le macchine stesse. Nei Fablab si organizzano corsi che vanno dal disegno alla robotica, alla programmazione.

E dentro ad un Fablab chi ci lavora?

Un’altra grande novità introdotta dai Fablab, in cui risiede forse anche la difficoltà di comprensione da parte di chi non è un addetto ai lavori, sta nella loro multisettorialità: dentro a un Fablab può entrare un contadino, un medico, un architetto o qualsiasi tipo di professionista che trovi attraverso questi processi il modo di migliorare, rendere più efficiente, economico, rapido e creativo il suo lavoro. Non si tratta di un nuovo settore ma di un insieme di processi totalmente trasversali.

Esiste anche un movimento più ampio, quello dei makers. Che cos’è?

I Fablab sono solo una parte del movimento dei makers , nati come brand all’interno del MIT di Boston. Il movimento dei makers è una galassia molto eterogenea, ci sono laboratori chiamati makerspace o hackerspace , meno connessi fra loro e senza standard specifici come invece avviene per i Fablab , che hanno aderiscono ad una carta di comportamento e organizzazione. Ad ogni modo anche gli stessi Fablab differiscono molto fra loro: possono essere sia all’interno di centri di formazione come le università, che nascere spontaneamente in un garage. C’è il Fablab Central dell’MIT di Boston, che se ci entrate sembra di stare alla NASA, e poi ci sono garage con due stampanti 3D: sono entrambi dei Fablab. L’aspetto fondamentale, in qualsiasi caso, è che ci sia una community alla base. Molto spesso si fa l’errore di aprire un Fablab attraverso dei finanziamenti che consentono di acquistare i macchinari, senza curarsi dell’altro aspetto fondamentale, quello delle persone.

Esiste una rete ufficiale dei Fablab , giusto?

Sì, c’è un portale al quale gli stessi Fablab si iscrivono. Ci sono vari tentativi di catalogarsi, contarsi all’interno del mondo dei Fablab .

Spesso abbiamo in testa la dicotomia tra ciò che è artigianale e ciò che invece è automatizzato e prodotto dalle macchine; il Fablab mi sembra che sia un’esperienza ibrida da questo punto di vista. Quanto c’è di artigianale in un Fablab?

Il Fablab sta un po’ lì nel mezzo in effetti: è un po’ artigianato nella dimensione quantitativa dei prodotti, ovvero pochi numeri, ed è un po’ industria nella tecnologia che applichiamo. Ricordo che quando siamo comparsi come movimento in Italia gli artigiani – che peraltro si trovavano in una fase di contrazione di mercato – ci hanno visto come dei concorrenti. In realtà oggi hanno capito che siamo perfettamente sinergici perché noi abbiamo gli strumenti ma non abbiamo il know how su alcuni processi e materiali che invece gli artigiani hanno.

Oggi succede spesso che collaboriamo con gli artigiani più classici e consentiamo loro di reinventarsi, rimettersi sul mercato grazie alle nuove tecnologie che gli consentono di lavorare in maniera più veloce ed efficiente. D’altro canto siamo anche sinergici alla grande industria, dal momento che siamo in grado di fare ricerca e sviluppo su nuove idee e prodotti in maniera molto più economica, rapida e innovativa rispetto ai classici processi industriali. Tant’è che l’industria oggi ha le orecchie piuttosto dritte nei nostri confronti come movimento, proprio perché l’eclettismo, la capacità di far circolare le idee per loro è una novità e, più cinicamente, un modo di esternalizzare i costi di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti.

Una specie di grosso laboratorio di ricerca a costo zero…

Esatto. Addirittura alcune case di software oggi escono con delle versioni gratuite perché hanno capito che statisticamente fra i ragazzini che utilizzano questi strumenti gratuitamente qualcuno se ne uscirà con una grossa idea che loro possono così intercettare.

Qual è – se c’è – la visione del mondo, la filosofia che sta alla base del movimento dei makers ?

C’è la visione piuttosto condivisa, che provo a riassumerti: un domani il modello attuale di sviluppo e di produzione industriale, basato sulle mega produzioni centralizzate, andrà a contrarsi e si modificherà, lasciando spazio a tante nanofabbriche sparse in giro per il mondo con una organizzazione più orizzontale. A circolare non saranno più le merci, attraverso le infrastrutture fisiche, ma i file attraverso quelle digitali. I file potranno essere scaricati tramite dei portali che già iniziano ad esserci, riconoscendo la giusta percentuale all’inventore del modello, e quindi trasformati in oggetti in tutte le parti del mondo. Non ci sarà più una fabbrica che fa un miliardo di pezzi ma centomila fabbriche che faranno dieci pezzi.

Questa è la visione con cui è nato questo movimento: ci vorrà del tempo ovviamente ma questa è la strada che piano piano stiamo prendendo. Tenete conto che oggi ci sono oltre 1300 Fablab riconosciuti in giro per il mondo, senza tener conto di tutti i makerspace e hackerspace.

Quando è nato il primo Fablab ?

Siamo a 16 anni di anzianità, quindi niente: un bambino appena nato che non sa ancora bene che strada prendere e le prenderà probabilmente tutte. All’interno del mondo Fablab ci sono artisti, ingegneri elettronici, ambientalisti come nel mio caso…

A proposito di ambiente, qual è il contributo che questa visione può apportare alle sfide ambientali?

Io trovo in questi nuovi tipi di processi e nelle conseguenze anche sociali sull’organizzazione del lavoro l’embrione di un nuovo modello di sviluppo: non a caso la chiamano la quarta rivoluzione industriale.

Pensate poi anche ai processi produttivi: un tipico processo che appartiene all’industria è quello della fresa a controllo numerico, che consiste nel mettere un blocco di materiale e scavarlo con questa attrezzatura, con enormi perdite di materiale difficilmente recuperabili. Si calcola che mediamente il materiale che compone un prodotto sia solo il 25% di quello utilizzato per il ciclo di produzione; il restante 75% sono scarti, imballaggi, materiali usati per il processo. Con la tecnica della stampa 3D non si ha quasi più scarto di materiale. Poi come dicevamo è una disciplina giovanissima, ogni giorno escono fuori materiali nuovi, c’è molta sperimentazione che consente di aumentare gradualmente la sostenibilità di tutto il processo.

Prima accennavi anche al tema del lavoro: c’è un cambiamento anche nell’approccio al lavoro in sé?

Guarda, all’inizio venivano persone che cercavano un lavoro e noi gli abbiamo spiegato che “il lavoro sei tu”. Fatti una competenza, preparati, studia, divertiti. Non c’è nessun datore di lavoro, vieni qui e ti proponi: è un paradigma diverso. Se oggi sappiamo che le grosse fabbriche chiudono in un luogo per riaprire in un altro, un domani con questa nuova organizzazione del lavoro possiamo evitare tutte queste fluttuazioni pericolose dal punto di vista sociale.

Qualche lettura consigliata per chi volesse approfondire?

I libri e gli articoli di Neil Gershenfeld, professore al MIT di Boston e fondatore della Fab Academy.

 

Andrea Degl’Innocenti