La Fondazione Adriano Olivetti nasce nel 1962 per volere di alcuni collaboratori molto stretti di Adriano e di una parte della sua famiglia, per provare a leggere la realtà contemporanea con uno sguardo olivettiano. Dal 2012, la fondazione ha deciso di mettere in campo uno sforzo importante per provare a riportare Adriano Olivetti nel dibattito della contemporaneità e soprattutto tra la gente.
Quando si ricordano personaggi così importanti come è stato Adriano, si corre il rischio della nostalgia, di condurre un’operazione antiquariale, cioè di cercare di resuscitare delle storie ormai passate, invece la nostra volontà è di cercare di farne emergere l’attualità.
L’attualità di Olivetti, però, si scontra anche con l’estraneità che egli suscita. C’è stato nel tempo un processo di rimozione evidente di questa figura. Ricordo che, quando studiavo sui manuali di storia, su quelli che venivano ritenuti fondamentali, mi emozionavo quando trovavo il nome di Adriano Olivetti nell’indice. Oggi, invece, anche attraverso appuntamenti come “Un futuro mai visto”, si deve cercare di intervenire per riempire una lacuna di tipo divulgativo prima che storico come abbiamo fatto nel 2012, pubblicando il libro “Il discorso ai lavoratori di Pozzuoli” nella convinzione che fosse non un’operazione di antiquariato editoriale ma un’azione divulgativa e importante dal punto di vista generazionale. Quando qualche mese dopo la pubblicazione, una libreria del Nord Italia ci ha chiamato dicendo che una ragazza aveva portato il testo al libraio, il quale l’aveva trovato illuminante e coinvolgente al punto da chiamare la casa editrice di Roma per sapere se Adriano Olivetti fosse stato disponibile a presentarlo nella sua libreria, abbiamo capito che a volte la rilettura della storia può avere una funzione rigeneratrice senza per questo cadere nella celebrazione.
Ma cosa rimane oggi di Adriano Olivetti? Del suo chiedersi come fare ad essere tecnicamente progrediti senza per questo essere umanamente imbarbariti?
Ragionando sulla storia economica, la peculiarità, l’originalità e la grandiosità dell’esperienza olivettiana sta nella sua dimensione. La Olivetti e la fabbrica di Pozzuoli sono stati tra gli esempi forse più alti al mondo di quegli anni, come luogo di produzione, di innovazione sociale e tecnologica. Fatta questa premessa, credo che oggi Adriano Olivetti siamo tutti noi, cioè tutte le persone che si pongono ancora quelle domande a cui Adriano rispondeva senza mai fare un riferimento diretto alla responsabilità sociale di impresa, mentre con i fatti, però, ne dettava una definizione ancora oggi moderna, che probabilmente lo avvicina anche agli altri personaggi (della manifestazione “Un futuro mai visto” ndr) come Franco Basaglia, Don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, capaci di mettersi sempre in ascolto degli ultimi in maniera autentica, cercando sempre un rapporto empatico.
Nel 1945, appena rientrato in fabbrica a Ivrea, Olivetti fece una delle prime operazioni dal punto di vista del welfare aziendale, ovvero introdusse e potenziò un servizio di assistenza alle madri che si chiamava ALO – Assistenza Lavoratrici Olivetti. Nello stesso anno tenne un discorso noto con il titolo “Dovete conoscere i fini del vostro lavoro”, con il quale ha consegnato un altro grande insegnamento della storia olivettiana, cioè restituire senso alle cose, all’industria, all’economia, all’innovazione tecnologica affinchè questa sia veramente al servizio delle persone e non viceversa. Adriano Olivetti, in quel discorso, dice che “con la reintroduzione dell’assistenza alle lavoratrici – che garantiva all’epoca un permesso di maternità di nove mesi a parità di stipendio – abbiamo voluto dimostrare la nostra solidarietà affinché nessuna donna, o diremo meglio, nessuna donna che sia anche operaia o operaia che sia anche madre, possa mai vedere con invidia e con dolore quelle altre donne che hanno la possibilità e la fortuna di poter tenere in casa i primi mesi di vita il loro bambino.”
Credo che questo sia l’aspetto più alto della riflessione su cos’è l’industria e quali sono i suoi fini, cioè la capacità di creare una comunità veramente e autenticamente solidale. E Adriano Olivetti questo l’ha fatto, mai in modo episodico, non in modo caritatevole, ma in modo funzionale e di successo dal punto di vista imprenditoriale. L’idea che la responsabilità sociale di un’impresa debba essere la vocazione stessa dell’impresa e non un corollario, una voce di bilancio eccentrica rispetto a quella che poi effettivamente è la quotidianità dell’impresa, credo che sia il modo più giusto e corretto anche di interpretare quella storia.
Sono contento che Adriano Olivetti sia stato messo insieme a questi grandi italiani del passato, che hanno avuto la capacità di vedere oltre l’apparente. Concludo citando quello che Adriano scriveva a proposito della sua attività come industriale, ma anche come politico, editore, innovatore sociale, imprenditore inteso come colui che è capace di riformare il presente e il reale – e lo scriveva a proposito di quella campana diventata il simbolo di tutta la sua attività, che dal 1962 è il simbolo della Fondazione Adriano Olivetti e dal 2012 è tornato a essere il simbolo della casa editrice Edizioni di Comunità fondata nel 1946 da Olivetti: “Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana, essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato, suona soltanto per la parte migliore di noi stessi e vibra ogni volta che è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore e l’amore contro l’indifferenza.”
(Tratto dall’intervento tenuto l’8 settembre 2016 a Napoli all’incontro “Un futuro mai visto – Adriano Olivetti, un’altra impresa”)
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