L’invito al dibattito di questa mattina riconosce al Festival dei Matti una dignità che abbiamo cercato di guadagnarci con un obiettivo che ci ha caratterizzato fin dall’inizio ovvero l’idea di prendere sul serio Basaglia e le sue parole in un contesto che per tanto tempo ci è sembrato sottovalutarlo. Abbiamo preso sul serio la sua idea che la follia è una condizione umana che riguarda tutti, che ci appartiene quanto la ragione e il pensiero secondo cui una società per dirsi civile deve riuscire ad accettare la follia quanto accetta la ragione senza ridurla alla ragione stessa, ad una presa razionale che alla fine ha solo l’obiettivo di eliminarla, di toglierle la voce come fa la medicalizzazione della follia.

Abbiamo pensato che ridare cittadinanza alla follia potesse indicarci un percorso, che è quello che abbiamo provato a mettere in campo aprendo uno scenario in cui si potesse ricostituire un dibattito. A noi pare, infatti, che il dibattito intorno a follia e normalità, salute e sofferenza mentale, sia uscito di scena da troppo tempo, e ci pare che di questi argomenti si ritengano in diritto di parlarne solo i cosiddetti addetti ai lavori: da una parte i tecnici che usano parole cupe, buie, parole che non danno scampo, e dall’altra parte il mondo dell’informazione, che quando si approssima a questi temi fa delle operazioni davvero discutibili.

Allora noi abbiamo pensato di costruire un festival che si chiamasse Festival dei Matti e non della follia perché ci sembra che la parola “matti” sia meno svalutante, una parola nella quale tutti siamo abbastanza disposti a riconoscerci. Mi ricordo che la prima edizione del Festival è stata inaugurata da una lezione magistrale straordinaria di Franco Rotelli in cui lui si chiedeva come mai ci fossero così tante persone in sala e cercava di rispondere pensando che probabilmente quelle persone erano affascinate dal titolo un po’ politicamente scorretto, ma erano anche disposte a pensarsi e a ritenersi matti se questo significa sottolineare l’unicità di ciascuna persona.

Noi abbiamo deciso di aprire uno scenario per rilanciare un dibattito pubblico in cui mettere insieme sia le persone che hanno vissuto l’esperienza sia personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, semplici cittadini, in un’idea di intersezione che potesse lanciare la sfida di un’inclusione sociale e culturale, smontando anche i confini disciplinari.

Il festival è l’emanazione di una collettività, dietro c’è il Forum di Salute Mentale, Stop OPG, il Comune di Venezia, la Fondazione Pinault di Palazzo Grassi, la Fondazione Franco Basaglia, ci sono insomma tantissime entità che hanno deciso di appoggiare la nostra impresa. In questo, abbiamo fatto una scelta di campo precisa, cioè quella di non allearci ai servizi di salute mentale del nostro territorio né ai servizi sociali, perché da un lato volevamo essere una realtà culturale, non connotata nel senso sanitario e sociale perché ciò ci avrebbe infilato in una nicchia; dall’altra parte abbiamo deciso di mantenere questa indipendenza perché vogliamo che il festival sia un territorio nel quale il pensiero critico possa essere alimentato e sostenuto, espresso senza l’influenza dei tanti ricatti in campo quando si parla di salute mentale, di follia e di normalità.

Questa rete che stiamo costruendo con il nostro territorio nel tempo si è allargata e oggi, per esempio, abbiamo una partnership con l’Università Ca’ Foscari, che ci permette di realizzare una serie di iniziative anche durante l’anno, di lavorare con gli studenti che potranno presentare dei lavori sul tema del rapporto tra follia e normalità, sulla questione dei diritti di cittadinanza e dell’inclusione sociale.

(Tratto dall’intervento tenuto il 22 ottobre 2016 a Venezia all’incontro “Un futuro mai visto – Franco Basaglia, l’utopia della realtà”)