Credo sia superfluo, oggi, elencare studi o scomodare illustri osservatori per dimostrare l’importanza del ruolo svolto dalla comunicazione in ogni ambito della nostra vita, sociale e privata. O evidenziare come anche le singole persone, oltre che le organizzazioni, possano influenzare direttamente l’opinione pubblica, anche se con i dovuti limiti. Tutti comunichiamo, volontariamente o no. Tutti coloro che hanno accesso ai social media, ad esempio, possono condizionare l’informazione o almeno i flussi comunicativi, la percezione della realtà da parte di una comunità o dei singoli cittadini. Molto spesso questo si nota di più, o almeno così lo percepiamo appunto, nell’ambito della comunicazione politica e in quella commerciale. Ma il concetto vale per ogni ambito, compreso il “sociale”. Anzi, soprattutto per quest’ultimo che, essendo sociale per definizione, aspira ad essere il campo della “comunicazione senza aggettivi”, per la sua vocazione “pubblica”, a mettere in relazione mondi ed esperienze diverse, a valorizzare il capitale sociale. Insomma, la comunicazione, qualunque essa sia, produce sempre un effetto verso gli altri. Per questo può essere una fondamentale leva del cambiamento. Già, ma se l’obiettivo allora è produrre il cambiamento in che modo dovremmo comunicare e soprattutto che cosa e a chi (o a quanti)? L’obiettivo di questo approfondimento non è così ambizioso, per cui non ricerchiamo tanto una risposta a queste domande. Piuttosto vogliamo esplorare, con il contributo di idee, riflessioni ed esperienze, cosa si muove attorno alla frontiera di questa comunicazione che denuncia, racconta, propone con l’obiettivo implicito di provocare il cambiamento. E lo facciamo dal nostro particolare osservatorio, un magazine che indaga il rapporto tra coesione sociale e sviluppo, in modo non accademico ma pragmatico.
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