Non è un tema semplice. Il punto di vista che poniamo al centro di questo confronto però è abbastanza chiaro, come si evidenzia dall’accento presente nel titolo. Ovvero la necessità di superare, nei fatti, la dicotomia tra sviluppo e ambiente e la contrapposizione tra diritti fondamentali quali la salute, la qualità della vita e il lavoro. La necessità di promuovere azioni “pubbliche” – nel senso più ampio del termine – di valorizzazione dei beni comuni, capaci di provocare il cambiamento nelle politiche di sviluppo e, soprattutto, nel territorio.
Tradurre in pratica un concetto complesso e articolato come questo, ovviamente, non è facile. Né scontato. Una comunità, al di là delle sue dimensioni, come può soddisfare le proprie esigenze senza compromettere se stessa e le generazioni future, garantendo la preservazione del patrimonio ambientale e, contemporaneamente, permettendo la sua crescita economica e sociale?
La Conferenza ONU su ambiente sviluppo del 1992 a Rio de Janeiro ha prodotto l’Agenda 21, un documento di intenti su cosa fare nel XXI secolo, ricordandoci che il consumo del bene ambientale deve avvenire in primis a livello locale e invitando le autorità del territorio a giocare un ruolo chiave nell’educazione, mobilitazione e risposta al pubblico per la promozione dello sviluppo. Un programma che propone come concetto chiave la “corresponsabilizzazione” tra cittadini, amministrazioni e portatori di interesse .
Dieci anni più tardi, nella dichiarazione politica del Vertice di Johannesburg, è stato sottolineato come il principio dello sviluppo sostenibile deve basarsi su tre pilastri interdipendenti: lo sviluppo economico, lo sviluppo sociale e la protezione ambientale.
A queste due importanti tappe, andrebbero aggiunte anche la Convenzione Europea sul paesaggio, sottoscritta da 27 stati europei nel 2000 e ratificata anche dall’Italia nel 2006, con l’obiettivo di far recepire alle amministrazioni locali, nazionali e internazionali, provvedimenti, atti e politiche che sostengano il paesaggio con operazioni di salvaguardia, gestione e pianificazione, per migliorare la qualità della vita delle popolazioni tramite le amministrazioni pubbliche, affinché si rafforzi il rapporto dei cittadini con i loro territori; la Convenzione di Aarhus, un trattato internazionale – entrato in vigore in Italia nel 2001 – per garantire all’opinione pubblica e ai cittadini il diritto alla trasparenza e alla partecipazione in materia ai processi decisionali di governo locale e nazionale riguardanti l’ambiente.
Dunque la falsa dicotomia tra economia ed ecologia, produzione e ambiente, sembrerebbe essere storicamente, culturalmente e politicamente, superata. Sappiamo purtroppo che non è così. Dal consumo incessante di territorio all’aumento del rischio idrogeologico, dalle varie Taranto e Ilva, dalle diverse terre dei fuochi e dalle tante emergenze rifiuti, sappiamo che il concetto di sostenibilità non è stato esattamente (eufemismo) la regola delle nostre politiche di sviluppo. Sappiamo anche che queste non-scelte hanno degli affetti diretti sulla salute dell’uomo, con conseguenze spesso letali, ma anche sul lavoro e sull’economia di un territorio. Insomma, sul presente e sul futuro.
Come se ne esce? Anzi, esistono possibilità concrete, modelli praticabili? Con queste domande sullo sfondo, in questo numero ci limitiamo semplicemente a dare spazio a riflessioni e punti di vista di esperti, accademici, intellettuali e operatori, ad alcune comunità direttamente interessate e a iniziative che, nonostante tutto, vedono il nostro Sud pronto a mettersi in gioco, a sperimentare, innovare e infine ad amare se stesso, un po’ di più.
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