Tre anni fa “La scuola abbandonata”, inchiesta sulla dispersione scolastica, fu lanciato come primo progetto di Timu, la piattaforma per il giornalismo partecipativo della Fondazione Ahref. In un anno abbiamo raccolto una quarantina di contributi, alcuni di grande qualità, ma non numerosi quanto ci aspettavamo per un argomento di interesse sociale così vasto: se si pensa che sono circa 9 milioni i bambini e ragazzi che vanno a scuola, sommando alunni, genitori, nonni, insegnanti e personale non docente si vede facilmente come gran parte della popolazione abbia a che fare quotidianamente con la scuola e i suoi problemi.
E dunque quell’inchiesta ha finito per darci soprattutto un insegnamento negativo. Il mondo della scuola ha difficoltà a comunicare con il sistema dei mass media e anche con il sistema politico. In molti casi, scrutando attentamente i meccanismi della partecipazione alla nostra inchiesta, si è visto che da parte degli insegnanti e dei genitori manca proprio l’interesse a comunicare. E sarebbe interessante capire perché.
Sicuramente il rapporto tra scuola e mass media è pieno di equivoci.
Per esempio è capitato nei mesi scorsi di leggere sui grandi giornali nazionali che il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza stava affrontando la questione di ridurre da cinque a quattro anni la durata delle medie superiori, e si è potuto confusamente capire che alla base della faccenda c’erano due ragioni: il solito generico “fare come gli altri in Europa” e l’obiettivo di far arrivare i giovani alla laurea un anno prima per questioni di competitività con i coetanei di altri Paesi. Nelle settimane scorse una grande inchiesta del magazine americano Time ci ha raccontato che gli Stati Uniti si pongono il problema opposto: passare da 4 a 6 anni, per la semplice ragione che i tempi richiedono ai giovani che non vanno all’Università di presentarsi sul mercato del lavoro con una preparazione più completa e approfondita.
Se dunque non c’è traccia di una discussione seria e documentata su un tema così importante come la durata delle medie superiori, anche la questione della dispersione scolastica sembra abbandonata alla più desolante superficialità, a una discussione approssimativa alla quale non partecipano in nessun modo gli unici autentici depositari di conoscenze specifiche, gli insegnanti.
Suppongo che se si chiedesse al cosiddetto uomo della strada perché in Italia così tanti giovani abbandonano la scuola, la risposta pressoché unanime rimanderebbe alle difficoltà economiche. Si tratta di una superstizione senza riscontro. E’ vero infatti che la dispersione scolastica colpisce più duramente nelle regioni del Mezzogiorno, ma è anche vero che l’Italia nelle classifiche internazionali risulta più colpita dal fenomeno rispetto a nazioni più povere. Non solo. Perché nei più recenti dati del Miur la dispersione scolastica colpisce esattamente nella stessa misura la Calabria e la Liguria? E perché nel confronto tra 2006 e 2012 il crollo più accentuato del fenomeno colpisce regioni come Lombardia e Piemonte?
Uno dei più immediati risultati della nostra inchiesta è stato la conferma di un dato sotto gli occhi di tutti: spesso i giovani abbandonano la scuola perché un mercato del lavoro più vivace attira i ragazzi, proponendosi come alternativa attraente rispetto alla prosecuzione degli studi. Così nelle regioni più ricche è stata, in quel caso sì, proprio la crisi economica a ridimensionare bruscamente il fenomeno dell’abbandono degli studi.
D’altra parte, nella statistica 2012 compare una novità significativa: mentre nel 2006 le regioni messe peggio erano Sardegna, Sicilia, Campania e Puglia, nel 2012 la regione governata da Nichi Vendola ha sorpassato la ricca Valle d’Aosta. E noi sappiamo che in questi anni la Puglia ha lavorato con grande impegno e in modo efficace sulla dispersione scolastica grazie a una diagnosi indovinata: non è la povertà della famiglia a strappare il ragazzo alla scuola, ma proprio il cattivo funzionamento della scuola, che fatica a offrire agli alunni un’esperienza formativa gratificante. La Puglia quindi ha lavorato sulla scuola, sul miglioramento della qualità complessiva del servizio.
Di tutto questo il sistema dei mass media registra molto poco, e per diverse ragioni. La prima è che la scuola, come la sanità, rappresenta un momento transeunte dell’esperienza sociale. Lo studente e la sua famiglia, in una parola l’utenza, sa che il periodo formativo prima o poi finirà, e ci sarà un dopo in cui il cittadino, diplomato o no, potrà tranquillamente disinteressarsi del problema. Così come si entra a contatto con il sistema sanitario solo quando si sta poco bene, per dimenticare più rapidamente possibile quanto si è sperimentato nel passaggio attraverso il tunnel della più o meno grave malattia.
C’è anche da dire che sebbene tutti i cittadini sperimentino quotidianamente il rapporto con l’asfalto il tema della pavimentazione stradale non è automaticamente al centro del dibattito politico o giornalistico. E curiosamente il sistema dei mass media sembra più interessato a dare voce agli studenti, presenza sicuramente più spettacolare, che non agli insegnanti, che pure sono coloro che dispongono della conoscenza dei fenomeni nella loro evoluzione temporale. Così come può accadere che arrivi al Miur come sottosegretario Marco Rossi Doria, una nomina accolta con generale soddisfazione per il suo significato innovativo, e dopo due anni venga freddamente accomiatato al momento della formazione di un governo “di svolta” dopo due governi “di emergenza”, senza che nessun organo d’informazione dedichi un commento significativo alla curiosa fuoruscita.
Queste considerazioni sparse rispondono al punto iniziale. L’inchiesta partecipativa di Timu sulla dispersione scolastica ha raccolto un numero deludente di contributi, quasi tutti di ottima qualità in quanto prodotti da giornalisti. La prima superficiale sensazione è che il mondo della scuola non abbia un grande interesse a raccontarsi. La seconda più meditata considerazione è che raccontarsi con un testo giornalisticamente valido, o con un video girato e montato come si deve, non è poi così semplice. Non deve sorprendere che a un professore di matematica non venga automatico scrivere un reportage sulla sua esperienza di combattimento contro la dispersione scolastica. Nè che un insegnante di italiano preferisca dedicare il suo tempo a un sforzo didattico in più piuttosto che a imparare a usare con perizia una telecamera per spostare il suo piano di battaglia dalla trincea quotidiana delle sue classi a quella virtuale del dibattito politico o culturale.
In definitiva l’esperimento di sollecitare il citizen journalism nel mondo della scuola si è rivelato molto istruttivo proprio da questo punto di vista. Forse nella scuola italiana ci sono insegnanti molto più bravi di quanto si creda, ma molto meno aspiranti giornalisti di quanto pensino gli ottimisti del citizen jourmalism.
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