Il tempo di Don Milani di “Lettere a una Professoressa” non era solo un tempo di indignazione, ma anche di costruzione del futuro. Non solo un tempo di ingiustizia e oppressione, ma anche di riscossa, rinascita. Ognuno è quello che è, ma è anche ciò che è nel suo tempo e il grido di Don Milani contro la scuola di classe era sull’onda di grandi trasformazioni. Oggi siamo chiamati a chiederci di quel tempo e del nostro e a fare un bilancio delle parole e dei fatti di Barbiana, a rilanciare nelle nostre nuove condizioni una parola sulla scuola, quella che serve a tutti e ciascuno, promuovendo ogni persona.
Quando uscì “Lettere a una Professoressa” eravamo un paese giovane che non c’è più. Ed è questa la prima vera profonda differenza del paesaggio italiano tra allora e oggi. Nel 1961, per ogni 100 persone con meno di 14 anni ve ne erano 38,9 con più di 65, nel 1971 erano 46,1, nel 1981, 61,7, nel 1991, 92,5, nel 2001, 127,1 e oggi ben 151 (!), mentre la media europea, già altissima se si guarda il mondo, è 96.
Quando dalla scuola di Barbiana uscì Lettere a una Professoressa, l’Italia era un paese giovane e adesso non lo è più. Don Milani era a Barbiana da anni e aveva negli occhi e nel cuore i ragazzi dell’Italia uscita dalla guerra, immersi nella fatica contadina e operaia con un gigantesco, variegato sapere materiale trasmesso di generazione in generazione ma esclusi dalla parola, dalla cultura universale e dalla scuola.
Quattro anni prima dell’uscita di “Lettere a una Professoressa” ma dopo molti anni di denuncia fattiva e di sperimentazione pedagogica a Barbiana con i ragazzi, il 1 ottobre del ’63 entrarono in classe, nelle aule della nuova scuola media unica detta unificata in ogni angolo d’Italia, centinaia di migliaia di ragazzi. Circa 600.000 ragazzi, non i sei di Barbiana, ma 600.000 ragazzi, che negli anni precedenti non vi sarebbero mai entrati.
Cos’era accaduto? Una nuova legge, la legge numero 1959 approvata alla fine di dicembre del ’62 dal governo di centro-sinistra, stabiliva che dall’anno scolastico successivo, appunto dal 1 ottobre ’66, dagli 11 ai 14 anni vi era l’obbligo di andare a scuola dopo la scuola media. I ragazzi poveri italiani, quelli di Don Milani, delle città, delle campagne, delle montagne – il futuro finalmente esteso a tutte le classi sociali del nostro mondo di allora – entrano finalmente a scuola. Don Milani lesse quel segno come una speranza e una sfida, perché come scritto dai ragazzi di Barbiana in “Lettere a una Professoressa” insieme a lui, “conoscere i ragazzi dei poveri e amare la politica è tutt’uno”. Non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi migliori. E quella è stata una delle migliori leggi della storia repubblicana (e meglio accompagnate da misure concrete in termini di edilizia scolastica, trasporti pubblici, immissione in ruolo di nuovi docenti, ecc.)
La resistenza alla legge fu enorme però. Nelle forze politiche e nei conservatorismi culturali assai diffusi. E poi erano tante le professoresse e i professori che provarono in ogni modo a tenere in piedi il vecchio castello della scuola di classe. Fu una svolta nella storia, che era nello spirito di Barbiana. Infatti Barbiana era – certo – un esempio non esportabile, come è per ogni testimonianza ed era una scuola privata. Ma era un’azione d’avanguardia, fattiva e dirompente e soprattutto intrisa di spirito pubblico. Ecco: una parte di questo spirito pubblico è diventata legge dello stato ed è potuto, così avvenire che una testimonianza di grande valore divenisse azione pubblica generalizzata, non rivolta più a pochi numeri ma a tutti.
Prima di quella legge, che in qualche modo dialogava con Barbiana, i figli dei poveri non andavano a scuola, 65 bambini su 100 andavano o a lavorare o ad aiutare nei lavori domestici se erano bambine. Senza matematica, senza scienze, senza parole, senza cultura. Erano questi i primi ragazzi di Barbiana, ai quali Don Milani dava la scienza, le umane lettere, la parola.
Immaginiamo per un attimo cosa significa. Noi adesso viviamo in un’altra Italia dove, anche se si impara ancora pochissimo in troppi casi, purtroppo, quasi tutti vanno alla scuola primaria e media. Ma immaginiamo per un attimo il cambiamento nella vita concreta delle persone nel contesto di allora. Antonio e Carla, di 11 anni, immaginiamoli, rispettivamente figlio di un piccolo salumiere di un paesino dell’Appennino molisano e figlia di un operaio dell’ItalCementi di Bagnoli, finiscono a pieni voti la quinta elementare e le famiglie decidono di non mandare i due ragazzi a scuola media, ma all’avviamento dove per 2 anni, 6 giorni a settimana con tute e arnesi per l’officina Antonio, e grembiule e attrezzi per i cosiddetti lavori domestici Carla, tutti comprati con i soldi delle famiglie povere, si ammaestrano al lavoro o a fare la casalinga e basta. Ed eco che con la nuova legge, all’improvviso, i fratelli di un anno più piccoli di Carla e Antonio, Gianni e Salvatore, entrano invece in una scuola, uguale per tutti i ragazzi della loro età, dove studiano italiano, matematica, francese, scienze.
Ci fu, insomma, un sommovimento profondo, culturale nell’idea stessa di cosa fosse la scuola, l’educare, la società, la vita italiana e si ebbe anche un risultato civile enorme, perché entrarono a fare parte della discussione pubblica i temi della pedagogia, il carattere evolutivo dell’età dell’adolescenza, il come si impara nel mondo.
E su questi temi, il priore di Barbiana sapeva che mani e mente dovevano andare insieme e la sua scuola non lo dimenticava. È stato terribile che tutta una cultura ha fatto vedere continuamente la biblioteca di Barbiana, le mappe di storia e le tabelle trascritte sui cartelloni… cose magnifiche ma dimenticando quel che c’era al piano di sotto di quell’aula di Barbiana: il banco per saldare, l’incudine, la forgia, il tornio a legno, le diverse morse, il banco di intaglio e il banco di falegnameria. Si imparava la grammatica, la statistica e si leggevano i quotidiani e, al contempo, ci si occupava delle cose pratiche, delle competenze – teoriche e operative insieme – legate alle trasformazioni materiali.
Il luogo Barbiana parla quindi di un metodo di apprendimento attivo, partecipativo, dove si mettono insieme mani e mente, un metodo rivolto al sé di chi sta crescendo e ai compagni con i quali si cresce – una scuola-comunità ad un tempo molto accogliente e molto rigorosa. Mai approssimativa o sciatto. È un metodo molto duro, dove si fanno le cose seriamente e si portano a termine. E se c’è un messaggio di Barbiana di allora che bisogna riportare nella scuola della sciatteria troppo diffusa di oggi, è il portare a termine le cose iniziate con dedizione e rigore, con l’occhio dei docenti rivolto sì a tutti ma anche a ciascuno, con vera cura e responsabilità educativa adulta.
Il luogo Barbiana parla di queste cose, ne parla con impressionante potenza e, appunto, con attualità. Ma va pur detto che troppi professori e professoresse di allora, e aggiungo quelli di oggi, sono legati con la mente e il cuore non solo ad una scuola per censo ma ad una scuola passiva e trasmissiva. La scuola per censo si è superata, almeno fino alla terza media…. anche se va gridato che sono sempre i poveri a non terminare l’obbligo d’istruzione e formazione ancora oggi in Italia e a cadere fuori dal sistema educativo. Ma – soprattutto – la scuola passiva e trasmissiva non si è superata. Adesso non si può bocciare più o quasi più ma spesso i ragazzi in difficoltà li si lascia andare, non si dà neanche la dignità della bocciatura.
Si perdo, spesso senza bocciare, migliaia e migliaia di ragazzini poveri ogni anno. Dopo la legge della scuola media unica furono costruite migliaia e migliaia di aule scolastiche, i patronati scolastici sostennero le migliaia di alunni che non avevano i mezzi e le scuole dovevano essere istituite in tutti i comuni, compresi quelli di montagna, in tutta Italia. Fu reclutato nuovo personale docente, centinaia di migliaia di persone, furono messi su 15000 corsi di alfabetizzazione popolare per analfabeti e semi-analfabeti anche adulti, fu abbassato da 60 a 40 il limite degli alunni per classe.
Bisogna pensare che le persone con la licenza media erano in Italia solo 1.380.000 nel censimento del 1951, che queste aumentarono di 550.000 unità in un decennio ancor prima dell’avvio della scuola media unificata (censimento del 1961), sospinti dal boom economico (che richiedeva maggior sapere); ma che – dopo l’avvio della scuola media unificata, al censimento del 1971, passati soli 7 anni scolastici, i ragazzi con la licenza della nuova scuola media raggiunsero i 3.384.000 e nel 1981, dopo 17 anni scolastici, oltre i 6 milioni. Il tasso di quattordicenni in possesso di licenza media passò, nei dieci anni successivi, dal 46,8% all’82,3%.
Eravamo diventati un paese europeo in pochi anni.
Ma quand’è che facciamo una roba del genere adesso per chiudere questa storia della dispersione scolastica?
Oggi lo dice l’ONU che la riduzione della diseguaglianza all’avvio della vita è un beneficio per le società umane nel loro complesso e lo riassume in tre principi, tre obiettivi sostenibili. Uno: tutti i minori hanno diritto ad apprendere, sperimentare, sviluppare capacità, talenti, aspirazioni. Due: devono poter avere accesso ad una offerta educativa di qualità e tre, importantissimo, se poveri devono poter essere destinatari di forti politiche pubbliche compensative.
E’ questo che non avviene abbastanza in Italia. Infatti la situazione in termini quantitativi è migliorata sicuramente ma ci sono ancora intollerabili esclusioni dovute al fallimento formativo precoce dei più poveri. Un esame del trend evidenzia una decrescita del fenomeno del “pochi arrivano” dal 20,8% del 2006 all’attuale 14,7%. Ma, al contempo, resiste “il peso della dispersione” sul nostro sistema. La percentuale, infatti, della popolazione 18-24 anni che ha frequentato al massimo 8 anni di istruzione obbligatoria (scuola media inferiore) e non ha concluso le scuole superiori né un corso di formazione professionale di durata di almeno 2 anni e che non svolge attività formative (early school leavers) è, appunto, ancora intorno al 15%. I dati, inoltre, evidenziano una differenziazione di genere (donne intorno al 12%, uomini oltre il 16%) e forti differenze nei tassi di abbandono tra le diverse regioni rispetto al raggiungimento dell’obiettivo, stabilito dall’UE, del 10% entro l’anno 2020 – si va da un +14 % rispetto al traguardo UE (24% di abbandoni) di Sicilia e Sardegna al -2% del Veneto (8% di abbandoni).
E per quello che imparano? Vi è un forte divario, legato direttamente all’esclusione sociale e culturale dei genitori. Se, infatti, si esaminano i ragazzi con i livelli più bassi di competenza nei saperi irrinunciabili della matematica di base e della lettura (low achievers), il 36% dei 15enni figli di poveri non raggiungono le competenze minime in matematica e il 29% in lettura e comprensione di semplici testi. E, ancora una volta, vi è un forte divario territoriale: i 15enni con basse conoscenze in lettura e in matematica sono, rispettivamente, il 23% e il 20% nella già altissima media nazionale ma al Sud sono il 34 % e il 30%.
E tale situazione, gravissima, è intimamente legata al perdurare della povertà minorile in Italia, che riguarda un milione e 45 mila persone in età scolare sono oggi in condizioni di povertà assoluta, il 10% della popolazione di riferimento mentre la povertà relativa riguarda quasi 2 milioni di minori, il 19% circa del totale, con una distribuzione territoriale che vede una concentrazione nel Sud e nelle aree urbane dell’esclusione sociale.
Insomma, a 50 anni dalla denuncia di don Milani la nostra scuola è ancora “di classe”. Perché i tassi elevati di abbandoni e di livelli inaccettabili di conoscenza coincidono con le zone più povere d’Italia dove sono concentrate le famiglie socialmente escluse e anche minore accesso a libri, biblioteche, musei, rete dei servizi per la prima infanzia, sport, fruizione digitale, etc.
Concludo con una citazione di Don Milani, che diceva: “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”.
Noi abbiamo bisogno urgente di questa politica!
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