Il 19 marzo del 1992, esattamente due anni prima di essere assassinato nella sua sacrestia, don Peppino Diana durante un incontro a Napoli si chiedeva: “Quale è l’esigenza primaria? – e rispondeva – L’esigenza primaria è stata per noi una lunga e sofferta riflessione: essere segno di contraddizione in queste realtà, c’è bisogno che qualcuno inizi ad essere segno di rottura, di contraddizione e quindi di denuncia. Allora eccolo – diceva don Peppino Diana – il ruolo della legalità: educare ad essere segno di contraddizione“.
Abbiamo masticato queste riflessioni, le abbiamo volute praticare dove abitiamo, nei nostri vissuti quotidiani, siamo partiti proprio da questo interrogativo: “come possiamo essere segno di contraddizione rispetto alla violenza delle mafie, alla pervasività delle economie criminali, all’indifferenza e assenza dello stato, al solipsismo sociale e culturale che ci isola?”.
Abbiamo immaginato che riutilizzare i beni sottratti alla camorra potesse essere un buon principio, che da lì potevamo iniziare un cammino condiviso e partecipato. Presto si è però palesata una questione determinante: un bene confiscato, anche se liberato dalla camorra, resta comunque un immobile, un’abitazione, un terreno. Perché diventi la casa di tutti, perché sia restituito davvero alla collettività, perché si realizzi a pieno il valore di questa lotta di liberazione e quel luogo possa diventare anche il fulcro di un nuovo modello di sviluppo, sostenibile e inclusivo, c’è bisogno di altro.
C’è bisogno di coraggio. Ma non quel coraggio abusato, banalizzato a volte addirittura prostituito da certa letteratura antimafia e da molti media che tradiscono il sacrificio compiuto da donne e uomini in nome di un ideale di libertà declinandolo come sterile e solitario eroismo. Non ci servono eroi. Le parole sono importanti, è necessario ritrovare e riappropriarci delle parole: a noi è servito ritrovare, coltivare e avere cura della parola “coraggio” nel suo significato profondo, etimologico, a noi serve, ogni giorno, mettere il cuore in quello che facciamo. Le parole sono importanti, “mettere il cuore” non richiami allora a un vacuo sentimentalismo. Mettere cuore vuol dire investire, razionalmente, sul bene relazionale, vuol dire riscoprire la ricchezza dell’alterità, riconoscersi nello sguardo dell’altro, ritrovarsi viandanti di un cammino da camminare insieme. Significa ripartire ogni giorno dall’incontro, e tra quanti, donne, uomini, giovani, anziani, incontriamo riconoscere, accogliere, avere cura, di chi è in difficoltà, di chi si porta dentro una ferita, un dolore, di quanti ancora troppo spesso sono considerati “gli ultimi”. E’ con loro che noi abbiamo inteso essere segno di contraddizione.
Così abbiamo incontrato Federico, che era stato internato nel campo di concentramento di Dachau e poi, per quarant’anni, nel manicomio di Aversa. E quando hanno chiuso l’ospedale psichiatrico ancora l’inferno delle nuove forme di manicomializzazione. Poi, finalmente, un progetto terapeutico individualizzato, la possibilità, l’occasione di costruire insieme un percorso di libertà, di restituzione al diritto, alla cittadinanza. E così Federico ha ritrovato un posto e un nome, il suo valore e i suoi talenti, come quello di arrotolare una foglia, farne un’armonica, portarla alla bocca farla suonare, per restituire, fino al suo ultimo giorno di vita, una “bellezza troppo bellezza”, come lui definiva la musica. Con Federico noi riscopriamo ancora ogni giorno la bellezza, impariamo a riconoscere con lui, che aveva vissuto l’inferno dell’uomo, “chi e che cosa in mezzo all’inferno, inferno non è. E averne cura, e dargli spazio”.
Ed abbiamo incontrato Erasmo, che è sordomuto ed è spastico, e quando stava nell’istituto era solo il numero 47; ed era pure un soggetto socialmente pericoloso, perché quando nessuno lo capiva, per denunciare la sua esistenza, lui sbatteva la testa al muro, fino a farla sanguinare. Erasmo oggi non sbatte più la testa contro un muro, non è più un soggetto pericoloso, e quest’estate, quando hanno incendiato di nuovo, per l’ennesima volta, i terreni confiscati a Maiano di Sessa Aurunca, come fa da quando è socio lavoratore della cooperativa senza più alcun costo assistenziale per lo Stato, Erasmo è stato il primo, ancora, a riprendere la zappa per andare a coltivarli quei terreni. Perché anche Erasmo ha ritrovato un posto dove stare, un luogo da abitare, ha ritrovato il suo essere persona. Con Erasmo noi riscopriamo ancora ogni giorno la tenacia a non arrenderci alla banalità del “non può essere altrimenti”.
Tutto questo, però, non basta, non può bastare. Non può bastare una piccola isola felice: un’eccezione, se resta tale, corre il rischio della normalizzazione, di rafforzare la regola. Essere segno di contraddizione, vuol dire perseguire, con convinzione, un’utopia della realtà, e cercare, ostinatamente cercare, di condividerla, farla crescere, nel confronto, anche nello scontro quando necessario, ma sempre credendo che c’è ancora da fare, ché c’è sempre ancora da amare, perché amare è fare. Abbiamo avuto, grazie anche al sostegno di Fondazione CON IL SUD, e con il contributo di tanti amici che abbiamo incontrato, la possibilità di far crescere queste nostre realtà e con loro l’utopia che disegna prospettive e orizzonti nuovi. Soprattutto abbiamo avuto la possibilità d’incontrare, oggi anno, centinaia e migliaia di ragazzi, che sono venuti, che sono passati su quei territori. Convinti che i giovani non sono il nostro futuro, sono il nostro presente, l’unico che abbiamo.
Quando venendo a Venezia, incontro Cecilia che è veneta e partecipa a questo incontro perché ha conosciuto la realtà Al Di Là Dei Sogni a Maiano di Sessa Aurunca, comprendo, con Franco Basaglia, che “noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. E’ il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare”. Ed è allora che “l’impossibile diventa possibile”, e si può anche vincere la camorra.
Chiudo qui questo breve intervento, ché il mio, in fondo, è un discorso povero, costruito sull’esperienza, su quello che abbiamo fatto e facciamo ogni giorno. E’ un discorso che ha le mani sporche, di terra, la mia terra. E la cosa straordinaria è che abbiamo riscoperto che quella terra, la nostra terra, poteva essere, anzi è bella e produttiva. Ce lo insegnano tutti i giorni Federico, Erasmo, tutte le persone con cui proviamo, ogni giorno, ad essere fedeli alla bellezza e agli oppressi.
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