Il dibattito degli ultimi anni sull’immigrazione è stato molto sbilanciato sulla dimensione emergenziale del fenomeno. Gli sbarchi, le morti in mare, la rotta balcanica, l’operato delle ong, l’accoglienza e anche alcuni gravi fatti di cronaca, hanno totalmente monopolizzato l’interesse dell’opinione pubblica e dei media.
La politica, dal canto suo, non si è sottratta dalla tentazione di cavalcare questi temi, oscurandone quasi completamente altri, non meno importanti, della vicenda migratoria nazionale. Tra questi è certamente da annoverare il tema legato al contributo dei lavoratori stranieri al mercato del lavoro. Si tratta di una questione chiave nel processo d’inclusione dei migranti, di cui però si parla sempre meno, nonostante rappresenti ancora il principale elemento di spinta e di attrazione delle migrazioni contemporanee.
Il pensiero di chi lascia il proprio paese per raggiungere l’Italia e l’Europa è quello di trovare un lavoro dignitoso, da cui poter ricavare le risorse necessarie per sostenere sé e la propria famiglia rimasta in patria. È un progetto vero e proprio, talvolta complesso e rischioso, che deve fare i conti con realtà di accoglienza non sempre in grado di rispondere alle aspettative ma, diversamente da quanto spesso si immagina, capaci comunque di assorbire questa domanda di lavoro crescente.
I numeri, infatti, ci confermano che il lavoro dei migranti non solo è una realtà ormai consolidata ma in costante crescita, nonostante la crisi degli ultimi 10 anni. Ma chi sono i lavoratori stranieri che decidono di fermarsi in Italia? Dal 2008 al 2016 la loro presenza si è fatta sempre più evidente, da 1,7 milioni si è passati a 2,4 milioni (+41%). Nello stesso periodo, il loro peso sul totale degli occupati è cresciuto dal 7,3% al 10,5%. Un identikit sul lavoratore straniero è stato delineato dal recente rapporto della Fondazione Leone Moressa che ci racconta di un vero e proprio esercito il cui fortino è protetto dalle mura di casa: tra i collaboratori domestici e familiari, infatti, gli immigrati rappresentano ben il 74%. Anche tra i venditori ambulanti gli stranieri superano gli italiani, mentre tra i pescatori, pastori e boscaioli, arrivano a rappresentare circa il 40%.
La fotografia scattata dalla Fondazione Moressa ci ricorda come “gli immigrati restano però occupati prevalentemente in lavori di media e bassa qualifica. Oltre un terzo degli stranieri (35,6%) esercita professioni non qualificate, il 29,3% ricopre funzioni da operaio specializzato e solo il 6,7% è un professionista qualificato”. D’altronde questo sbilanciamento è dovuto ad un trend, ormai consolidato, che vede gli italiani occupare le professioni più qualificate liberando quelle per le quali sono richieste profili più bassi. E allora si spiega il dato per cui in agricoltura i lavoratori stranieri fanno i braccianti mentre gli italiani sono operai specializzati, oppure perché nelle statistiche sul commercio i venditori ambulanti di origine straniera sono sovra rappresentati mentre gli italiani figurano maggiormente nella gestione e pianificazione delle vendite. L’accesso alle professioni più qualificate, dunque, appare ancora precluso ai lavoratori stranieri e ciò anche a causa della grande offerta di lavoro qualificato da parte degli italiani il cui tasso di scolarizzazione è in costante crescita.
In un quadro così delineato, molto distante dalle paure e dagli stereotipi sul lavoro immigrato che sbrigativamente viene etichettato con lo slogan “ci rubano il lavoro”, permangono ancora degli elementi di forte criticità. Primo fra tutti la presenza di larghe sacche di lavoro nero e gravemente sfruttato che colpisce in particolar modo gli stranieri in quanto più vulnerabili a causa della loro precarietà amministrativa. La mancanza di un permesso di soggiorno espone queste persone a maggiore riscattabilità che nei fatti si traduce in salari inadeguati, in condizioni di lavoro inaccettabili oltre che in abusi, a danno soprattutto delle lavoratrici.
È una conseguenza diretta di politiche migratorie che negli ultimi decenni non sono riuscite a governare il flusso dei lavoratori migranti con il sistema delle quote d’ingresso che, pur previste nel nostro ordinamento, non vengono annualmente stabilite. Questo ha alimentato flussi irregolari che, attraverso la richiesta di protezione internazionale, permettono a queste persone di raggiungere il nostro paese per inserirsi nel mercato del lavoro ma in condizioni ben lontane da quelle che avrebbero se il loro ingresso avvenisse in modo regolare. Solo investendo su questi canali legali e sicuri di ingresso si potrà ristabilire un certo ordine nel mercato del lavoro italiano dove l’occupazione immigrata e quella autoctona sono parzialmente concorrenti e prevalentemente complementari.
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