Il consumo di suolo
I numerosi eventi alluvionali e franosi, spesso catastrofici, che hanno interessato anche recentemente il nostro Paese, sottolineano, se ce ne fosse ancora bisogno, l’elevato livello di vulnerabilità del territorio italiano. Tale vulnerabilità è la conseguenza non solo delle sue caratteristiche geologiche e morfologiche e del verificarsi di precipitazioni eccezionali spesso concentrate in brevi periodi di tempo e su aree di limitata estensione, ma anche della considerevole antropizzazione del territorio, dell’abusivismo edilizio, dell’insufficiente manutenzione (in particolare nelle zone montane e collinari), e di interventi idraulici e opere di sistemazione e di difesa spesso realizzati soltanto per motivi d’urgenza e, pertanto, affatto inseriti in un quadro organico di interventi, anzi in alcuni casi addirittura dannosi.
La progressiva trasformazione di aree naturali ed agricole, in aree destinate all’edificazione (di qualunque tipo), costituisce quello che viene comunemente denominato “consumo di suolo” .
Questo tipo di trasformazione è spesso irreversibile, e altrettanto spesso implica la difficoltà del ripristino dello stato ambientale preesistente, determinando così il progressivo depauperamento definitivo di quella inestimabile risorsa non rinnovabile – bene pubblico al pari dell’acqua – che è il “suolo”.
Nei recenti rapporti del WWF e dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), scaricabili dai rispettivi siti, risulta che il livello di cementificazione del nostro Paese è tra i più alti d’Europa.
Ciò che avviene nella “risorsa suolo” (le sue trasformazioni) costituisce uno dei fattori di pressione che interagisce e interferisce con i cicli naturali, e quindi anche con quello idrologico, come racconta in modo appassionato Renzo Rosso in “Bisagno. Il fiume nascosto” (Marsilio, 2014); all’interno del quale è riportata una dettagliata analisi del processo di urbanizzazione del bacino idrografico del fiume Bisagno, le costrizioni subite dalla rete idrografica, e il conseguente relativo incremento del rischio.
È indispensabile porre rimedio – con assoluta urgenza – all’indiscriminato consumo di suolo, come ha già fatto la Germania; e contestualmente avviare un grande progetto di recupero del patrimonio edilizio e delle infrastrutture, in modo da ridurre progressivamente i fattori di rischio.
Gli strumenti per la difesa del suolo
Da un punto di vista legislativo, uno dei documenti che ha affrontato in modo organico il problema della difesa del suolo, è la legge 183/89 (“Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo”) che ha stabilito per la prima volta che l’ambito “fisico” per la pianificazione, fosse il bacino idrografico, superando la frammentazione prodotta dall’utilizzo di confini puramente amministrativi. Come conseguenza diretta della Legge 183/89, il territorio nazionale è stato suddiviso in bacini idrografici (nazionali, interregionali e regionali) e per ciascuno di essi era prevista l’elaborazione di un Piano di Bacino, che riguardava vari aspetti della difesa del suolo: la difesa dalle alluvioni; la difesa e la valorizzazione del suolo; la salvaguardia della qualità delle acque superficiali e sotterranee, ecc. Per attuare l’applicazione della legge, sono state istituite le Autorità di Bacino, con il compito di gestire i bacini idrografici proprio attraverso i Piani di Bacino, veri e propri strumenti di pianificazione e programmazione. A seguito di ulteriori eventi calamitosi per accelerare il processo di prevenzione, è stato introdotto un nuovo strumento il “Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico”, piano sovraordinato, con l’obiettivo prioritario di ridurre il rischio idrogeologico, salvaguardare l’incolumità delle persone e ridurre al minimo i danni ai beni.
L’introduzione delle Autorità di Bacino è stata estremamente positiva dal punto di vista della salvaguardia idrogeologica del territorio, in quanto già nel 2003 tutte le Autorità di Bacino nazionali avevano redatto i Piani di Assetto Idrogeologico (PAI) contenenti indicazioni sui limiti delle aree pericolose, indicando le eventuali opere necessarie per la messa in sicurezza e soprattutto fissando norme di utilizzo di queste aree ad esempio vietare qualsiasi costruzione su aree a rischio idrogeologico.
I piani – ha fissato la normativa – devono essere periodicamente aggiornati e gli studi estesi a tutto il reticolo idrografico oltre che alle aste principali dei fiumi.
L’evoluzione normativa ha però modificato l’organizzazione appena descritta. Il D.lgs 152/06 “Norme in materia ambientale”, infatti, recependo la Direttiva 2000/60/CE, ha introdotto il Distretto Idrografico, promuovendolo a nuova entità di riferimento per la programmazione e pianificazione del territorio per l’assetto idrogeologico. Il Distretto è costituito da uno o più bacini idrografici limitrofi e dalle rispettive acque sotterranee e costiere. Lo strumento di pianificazione connesso è il Piano di Gestione del Distretto Idrografico.
Il Decreto prevede la ripartizione dell’intero territorio nazionale in 8 distretti idrografici (Alpi Orientali, Padano, Appennino Settentrionale, Distretto Pilota del Serchio, Appennino Centrale, Appennino Meridionale, Sardegna, Sicilia).
Il Distretto Idrografico dell’Appennino Meridionale copre una superficie di circa 68.200 km2 e comprende diversi bacini idrografici includendo interamente le regioni Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria ed in parte le Regioni Lazio e Abruzzo, in tutto 25 Province, di cui 7 parzialmente, 1664 Comuni, 18 A.T.O, 100 Comunità Montane, 44 Consorzi di Bonifica, 971 Aree Protette.
Avere centralizzato la pianificazione della gestione del suolo, in un unico ente che deve gestire politiche e interventi per estensione così ampia, pone problemi sia dal punto di vista della gestione amministrativa sia, soprattutto, dal punto di vista della competenza e della capacità di conoscenza e intervento sul territorio in un quadro organico di programmazione.
Le situazioni da affrontare dal punto di vista geologico, morfologico, di uso del suolo, sono, infatti, molto diverse tra di loro, basti pensare ai grandi bacini e alle piccolissime fiumare, e ai loro diversi comportamenti idrologici.
L’Italia con le sue leggi di difesa del suolo aveva anticipato molto di quanto previsto dalle norme comunitarie in materia di rischio idrogeologico ed idraulico e, proprio attraverso le Autorità di Bacino, aveva formato organi efficaci per il presidio del territorio.
I distretti hanno reso più complesso e farraginoso il sistema.
Malgrado però il corposo apparato normativo, le varie istituzioni e i complessi sistemi di pianificazione, il nostro Paese continua a inseguire drammaticamente gli eventi.
Le risorse destinate ad interventi di prevenzione e mitigazione sono risultate carenti, e per lo più indirizzate a interventi in emergenza su specifici casi, non affrontando un progetto organico ed adeguato di prevenzione, come previsto nel concetto originario di piano di bacino, introdotto dalla L.183/98. E questo accade tanto al Nord, quanto al Sud.
È dei giorni scorsi la notizia di attivazione di un fondo, per la progettazione degli interventi di difesa del suolo, da 200 milioni di euro, da finanziare grazie al Fondo di sviluppo e coesione, attraverso uno strumento legislativo ancora allo studio. Le Regioni, in particolare quelle del Sud, chiamate a redigere l’elenco dei progetti concernenti le azioni prioritarie da mettere in campo per la mitigazione del rischio, hanno però confermato di essere impreparate a fornire proposte dettagliate e accurate.
È necessario quindi attivare un’azione, urgente, rapida ed efficace per la mitigazione del rischio, che sostituisca la logica degli interventi disorganici e frammentari attuati in emergenza, con quella della prevenzione in un quadro generale di riqualificazione territoriale.
La manutenzione ordinaria e la cura del territorio devono diventare pratica comune e programmata, da sostenere finanziariamente e con continuità.
Le misure e le azioni da mettere in campo per la mitigazione del rischio devono comprendere progetti e soluzioni tecniche che tengano in conto lo sviluppo armonico del territorio. L’approccio alla soluzione del problema deve essere di tipo multidisciplinare mettendo insieme alle conoscenze scientifiche e tecniche, conoscenze economiche, sociali, culturali.
Il rischio e i cittadini
Negli ultimi anni è aumentata la percezione del rischio e la sensibilità verso i temi ad esso collegati. Questo cambio di cultura è testimoniato da un numero sempre più elevato e diffuso sul territorio nazionale di iniziative – promosse da Enti pubblici, Università, associazioni di volontariato – sui temi della sensibilizzazione, educazione, informazione e formazione, rivolte alla popolazione, alle strutture interessate al sistema della protezione civile.
Nel campo della pianificazione territoriale ed ambientale il concetto di rischio è utilizzato allo scopo di gestire il territorio in modo da ridurre il livello dei danni a un livello “socialmente accettato”. La scelta di questo livello è data dalla difficile convergenza di interessi sociali, economici, ambientali, sanitari e politici.
Il concetto di rischio è innanzitutto determinato dagli effetti che qualunque evento “naturale” ha sulla vita di una collettività (intesa come unità produttiva, funzionale, sociale). E soprattutto in termini di effetti sulla vita umana.
È fondamentale, dunque, la partecipazione e il coinvolgimento delle comunità locali e dei cittadini nel percorso di elaborazione dei piani di gestione del rischio idrogeologico, sia per incrementare la consapevolezza del rischio sia per stimolare comportamenti civici improntati al rispetto dell’ambiente e del territorio.
La partecipazione richiede attività d’informazione e formazione dei cittadini su questi temi.
In una recente esperienza del mio Ateneo, nell’ambito del progetto ProIDRO (Professionisti per il monitoraggio ambientale e la sicurezza IDROgeolgica) cofinanziato da Fondazione CON IL SUD, oltre ad un’esperienza interdisciplinare di alta formazione per giovani laureati in Ingegneria Civile, Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio, Scienze Geologiche e Fisica, è stato affrontato il problema della comunicazione del rischio.
Nell’ambito del progetto è stato elaborato un manuale, pensato per la distribuzione alla popolazione e alle associazioni di volontariato, in cui sono state identificate una serie di azioni da compiere (definite azioni salvavita) in caso di allarme, per eventi di frane e di alluvione.
L’opuscolo scaricabile in formato pdf, è utilizzato nella formazione dei volontari che a loro volta lavorano per l’educazione dei cittadini e per divulgare e diffondere la cultura della difesa dal rischio.
Un efficace sistema di prevenzione, infatti, è fatto oltre che dai dispositivi predisposti dalle istituzioni competenti, anche dal ruolo svolto dai singoli cittadini che devono attivare comportamenti corretti, per evitare o almeno concorrere a ridurre, gli effetti drammatici degli eventi estremi.
L’ambiente in cui viviamo è determinato da un equilibrio fragile tra forze diverse, che modifichiamo inevitabilmente già soltanto con la nostra presenza. Ma così come siamo attivi nella modifica, dobbiamo esserlo altrettanto, anzi di più, nella sua protezione e difesa. Perché come sperimentiamo sempre con maggiore frequenza, ne va della nostra esistenza.
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